Salute mentale: la cura non è esclusivamente il farmaco, ma un percorso di restituzione di vita possibile

“Un bambino di 13 anni cosa sta a fare in una struttura psichiatrica dove ci sono persone adulte con situazioni gravi?”. Pratiche coercitive diffuse in servizi psichiatrici. La presidente Unasam Gisella Trincas “Misure antiterapeutiche e illecite. Governo e Regioni vadano a controllare cosa c’è sui territori”

Roma, 8 ottobre 2020 – La disomogeneità, nell’organizzazione dei servizi, nella distribuzione delle risorse finanziarie, nella disponibilità di personale, è il problema più grande che affligge il sistema italiano dei servizi per la salute mentale.

“Una criticità che noi da lungo tempo evidenziamo sia al Governo centrale che alle Regioni” afferma Gisella Trincas, presidente dell’Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale (Unasam), intervistata dalla Dire in vista della Giornata mondiale della salute mentale, il prossimo 10 ottobre. Questa grave disomogeneità sul territorio nazionale ha come prima conseguenza la negazione del “diritto delle persone che vivono una sofferenza e che accedono ai servizi territoriali di salute mentale di portare avanti un percorso terapeutico riabilitativo realmente individualizzato, concordato e condiviso. Ci sono molti problemi in gran parte del territorio nazionale per arrivare al pieno rispetto dei principi fondamentali, non solo della legge di riforma 180 ma anche della legge 833”.

Dott.ssa Gisella Trincas

I tagli subiti dal settore sanitario negli anni e la differenza nella distribuzione delle risorse disponibili tra le Regioni sta comportando una progressiva “pesante istituzionalizzazione delle persone che vivono la condizione della sofferenza mentale – spiega Gisella Trincas – La risposta, di norma, in tanti territori è l’invio in comunità e l’utilizzo massiccio degli psicofarmaci. Due questioni importanti, due strumenti che si possono attivare ma quando servono e col consenso delle persone. Molte volte, invece, l’inserimento in comunità e la terapia farmacologica vengono imposti. Quindi, ci troviamo di fronte a un problema che sta alla base, che è l’elemento fondante del concetto di salute mentale e di comunità: non esiste cura senza la condivisione con la persona direttamente interessata. Non esiste cura senza che si faccia tutto ciò che serve per aiutare concretamente una persona a uscire da quella condizione di sofferenza e disturbo mentale”.

“L’ultimo Tavolo di confronto istituzionale – ricorda Trincas – lo abbiamo avuto nel 2006, fino più o meno al 2008, con la ministra Livia Turco. I lavori di quel Tavolo avevano portato all’elaborazione del Piano d’azione nazionale sulla salute mentale. L’unico che c’è ancora oggi. Abbiamo continuato, con gli altri Governi, a sollecitare l’istituzione dei Tavoli, ma nessuno se n’è occupato”.

“Lo ha fatto la ministra Giulia Grillo – continua Trincas – l’anno scorso in gennaio, istituendo il Tavolo al quale sediamo noi, le società scientifiche, le associazioni dei familiari e degli utenti e i funzionari dei vari ministeri. Il Tavolo aveva diversi obiettivi fondamentali, tra cui effettuare una ricognizione sullo stato dei servizi di salute mentale in Italia e individuare delle proposte. Ha lavorato per un anno intero e ha formulato delle proposte, anche se non proprio operative. Ma da gennaio 2020 – denuncia la presidente di Unasam – il Tavolo non è più stato convocato e quindi non siamo stati coinvolti neanche sulla gestione dell’emergenza Covid”.

“Abbiamo chiuso i manicomi, abbiamo chiuso gli ospedali psichiatrici giudiziari, ma abbiamo tante altre grandi e piccole istituzioni, parliamo delle cliniche private che portano via risorse ingenti alle Regioni”, denuncia Trincas.

“Parliamo dei grandi contenitori come quelli che accolgono 40 o anche più persone, ma non nell’ottica dei percorsi di ripresa, del restituire alle persone la capacità di stare nelle relazioni, di stare in un contesto sociale, di avere un lavoro, una casa, di ricostruire rapporti affettivi con le famiglie e gli amici. Ci sono questi grandi contenitori – prosegue Gisella Trincas – che ogni tanto saltano agli onori della cronaca, che non vanno nella direzione delle cure giuste, tempestive, adeguate per le persone”.

Approfondendo l’aspetto della giusta cura e assistenza da fornire alle persone che vivono la sofferenza mentale, la presidente di Unasam sottolinea che “la cura, in salute mentale, non è esclusivamente il farmaco quando serve, ma è costruire insieme un percorso di restituzione di una vita possibile e accettabile. Per fare questo, per poter lavorare concretamente sulle difficoltà che una persona che vive la condizione della sofferenza mentale attraversa, non serve l’ambulatorio psichiatrico, ma un centro di salute mentale ben strutturato e attrezzato, con risorse finanziarie. Questo è quello che serve ed è quello che manca in gran parte del territorio nazionale”.

I percorsi di reintegrazione nella vita sociale e affettiva, ricorda ancora Gisella Trincas, passano anche attraverso la domiciliarità. “La domiciliarità – tiene a spiegare – non significa che le persone che vivono condizioni di sofferenza mentale, e hanno situazioni di grande conflitto all’interno delle famiglie, devono stare nelle loro case. La domiciliarità significa che le persone devono essere aiutate, tempestivamente e non quando la malattia è cronicizzata, a portare avanti un progetto di cura e ripresa in una casa normale, che può essere anche condivisa con un piccolo gruppo”.

Qual è il ruolo delle istituzioni nella gestione di queste situazioni? “Occorre che le Regioni – prosegue la presidente di Unasam – facciano un piano di rivisitazione delle comunità per superare tutti quei luoghi della disumanizzazione che vanno chiusi definitivamente. E va fatto un piano strategico all’interno di ogni Regione. Solo in questo modo- conclude- possiamo dire che stiamo rispettando il dettato della legge di riforma psichiatrica”.

Le pratiche coercitive vengono utilizzate “nella maggioranza dei servizi psichiatrici di diagnosi e cura. Queste pratiche significano legare le persone al letto, alla poltrona o farle camminare con i polsi legati, senza mai slegarle – denuncia ancora Trincas – Poi ci sono alcuni di questi centri che fanno parte della rete ‘no restraint’ che non legano nessuno, che hanno le porte aperte e non applicano sistemi coercitivi. Se esistono realtà del genere in alcune Regioni d’Italia non si capisce perché non debba essere così anche nel resto del Paese”.

L’utilizzo delle pratiche coercitive è diffuso anche in altre realtà, spiega la presidente di Unasam. “I pazienti vengono legati pure nelle comunità terapeutiche, nelle grandi concentrazioni di sofferenza che possono accogliere fino a 200 o 300 persone e ancora esistono. Così anche nelle RSA, nelle strutture per anziani e i minorenni nelle comunità. Questo fenomeno grave non si riesce a fermare. Si può farlo con delle disposizioni chiare, che devono dire che queste pratiche non sono terapeutiche ma, al contrario, anti-terapeutiche e illecite – puntualizza Trincas – e che devono essere interrotte se vogliamo continuare a chiamarci il Paese della 180”.

Con l’arrivo del Covid e delle misure restrittive, anche per i pazienti di queste realtà, “tali pratiche sono ancora più accentuate – chiarisce la presidente di Unasam – le persone sono più chiuse di prima in queste realtà e riceviamo segnalazioni continue da parte dei familiari che non riescono a vedere i loro cari o li vedono attraverso un pannello di plexiglass senza poterli toccare o abbracciare. Questo sta capitando spesso anche a genitori che vanno a trovare i propri figli che sono in comunità, a volte lontano o molto lontano dalla Regione di residenza della famiglia, e ai quali vengono imposte suddette restrizioni. Qualche giorno fa un papà ci ha segnalato di essere stato fermato mentre cercava di fare una foto al proprio figlio. Come possono queste cose conciliarsi con la necessità della vicinanza, della relazione affettiva, del conforto alle persone che stanno male?”, chiede la presidente di Unasam.

“L’altro grande problema, che ogni tanto ci viene segnalato e che esisteva prima del Covid – evidenzia Trincas – è quello dei minorenni che stanno in strutture in cui si trovano le persone grandi di età con patologie molto importanti. Un bambino di 13 anni cosa sta a fare in una struttura psichiatrica dove ci sono persone adulte con situazioni gravi?”.

L’appello della presidente Unasam “al Governo e alle Regioni è di andare a controllare cosa c’è sui territori. Perché quando una struttura viene aperta riceve l’accreditamento da parte della Regione se si tratta di una struttura socio-sanitaria o l’autorizzazione da parte del Comune se è una struttura sociale. Quindi, chiunque nel sistema istituzionale può fare una ricognizione di ciò che esiste sul territorio, di ciò che deve essere salvato e di ciò che deve essere eliminato”, conclude la presidente di Unasam.

(fonte: Agenzia Dire)

Salva come PDF
Le informazioni presenti nel sito devono servire a migliorare, e non a sostituire, il rapporto medico-paziente. In nessun caso sostituiscono la consulenza medica specialistica. Ricordiamo a tutti i pazienti visitatori che in caso di disturbi e/o malattie è sempre necessario rivolgersi al proprio medico di base o allo specialista.

Potrebbe anche interessarti...