Questo core del ‘microbioma ruminale’ è ereditato dai bovini, dipende quindi dal loro Dna e permetterà la selezione genetica dei capi più produttivi e meno inquinanti. La scoperta si deve a uno studio dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, campus di Piacenza ed è stata resa nota sulla prestigiosa rivista “Science Advances”
Piacenza, 20 settembre 2019 – Ricercatori dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, campus di Piacenza hanno per la prima volta identificato un piccolo gruppo di microrganismi che rappresentano il “cuore” del microbioma intestinale (più precisamente ruminale) dei bovini, un piccolo microcosmo che si mantiene molto conservato nonostante la variabilità delle aree geografiche di provenienza, della razza e dell’alimentazione dell’animale.
Gli esperti hanno scoperto anche che questi microrganismi vengono di fatto controllati dai bovini, la loro abbondanza e composizione è infatti spiegata in modo significativo dal patrimonio genetico dell’animale. Infine hanno scoperto che questo core di microrganismi è predittivo della produttività dell’animale e delle sue emissioni di gas metano.
Realizzato nell’ambito di un progetto europeo denominato Ruminomics e coordinato dal professor John Wallace al quale i ricercatori dei dipartimenti DiANA e DiSTAS dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, campus di Piacenza hanno contribuito in misura determinante, lo studio è stato di recente pubblicato sulla rivista internazionale “Science Advances”. La ricerca si basa su un numero di animali e di dati senza precedenti, frutto di 4 anni di lavoro svolto da undici gruppi di ricerca europei e da collaborazioni internazionali.
Lo studio apre la strada alla possibilità di intraprendere programmi di selezione genetica basati sul microbioma per fornire una soluzione sostenibile all’aumento dell’efficienza e alla riduzione delle emissioni dei ruminanti.
Background
Oltre a svolgere un ruolo chiave nella digestione degli alimenti fibrosi e nel fornire sostanze nutritive all’animale ospite, il rumine, in quanto sede di una delle più complesse comunità microbiche conosciute dall’uomo, ha da tempo attratto l’interesse dei microbiologi, oltre che quello di fisiologi e nutrizionisti.
Queste attività consentono ai ruminanti di fornire agli esseri umani alimenti, principalmente latte e carne provenienti da materiale vegetale non commestibile per l’uomo, compresi i sottoprodotti agroindustriali, e permettono a molte comunità rurali di tutto il mondo di sopravvivere dove i seminativi sono impossibili. A tutto questo è tuttavia associato un costo ambientale in quanto i ruminanti, attraverso il loro microbioma ruminale, producono quantità significative di gas a effetto serra, metano in primo luogo.
Infatti, le emissioni mondiali di gas serra da parte degli allevamenti zootecnici ammontano a 7,1 giga-tonnellate per anno, corrispondenti al 14,5 percento delle emissioni complessive derivanti da attività antropiche. Di queste, il 44% sono sotto forma di metano, il resto è anidride carbonica (CO2) e protossido di azoto (N2O). La produzione di carne bovina è responsabile del 41% delle emissioni complessive di gas serra, la produzione di latte del 20%.
La ricerca
Il team di ricercatori ha monitorato oltre 1.000 vacche in lattazione appartenenti a due razze, Frisona e Rossa Nordica, allevate in 7 diversi allevamenti ripartiti su 4 nazioni (Italia, Inghilterra, Svezia e Finlandia), raccogliendo un’enorme mole di informazioni che ha permesso di studiare la complessa rete di relazioni esistenti tra genetica animale, microbioma ruminale e performance produttive. Il gruppo di ricerca UCSC, composto dal Dott. Paolo Bani affiancato dai dott. Piccioli Cappelli, Minuti, dalla dott.ssa Calegari e dal prof. Trevisi ha fornito un contribuito determinante (oltre il 40% degli animali oggetto di studio è stato controllato in Italia).
I risultati ottenuti hanno fornito un contributo significativo verso la possibilità di predire parametri di efficienza produttiva (quanto latte) e ambientale (quante emissioni) sulla base dell’analisi del microbioma ruminale del singolo animale.
Gli esperti hanno identificato un core costante di circa 512 specie presenti in almeno il 50% degli animali in ciascuna delle sette aziende studiate. Il gruppo principale è risultato condiviso tra le razze da latte Holstein e Nordic Red.
La composizione di questo ridotto nucleo di microrganismi è risultata sotto il controllo del Dna animale, e quindi ereditabile, e in grado di condizionare parametri produttivi importanti, quali la produzione di latte e l’emissione di metano.
Nel complesso, i risultati ottenuti mostrano anche che questo core microbico ha una capacità predittiva superiore rispetto al Dna stesso degli animali: ad esempio le emissioni di metano possono essere significativamente predette sulla base della composizione del microbioma ruminale.
“Questo core microbico – conclude il dottor Bani – è risultato in grado di spiegare in modo significativo il livello di emissioni di metano e anche di produzione di latte del singolo animale, per cui è ipotizzabile una selezione che al contempo riduca le prime e aumenti la seconda (gli animali più produttivi emettono meno metano per kg di latte prodotto). Il prossimo passo, a cui il team piacentino sta già lavorando, sarà quello di rendere questi risultati praticamente trasferibili al nostro settore agricolo”.