Insufficienza cardiaca cronica: una ricerca svela la possibile causa. Nuovi scenari di cura

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Ricercatori dell’Università Campus Bio-Medico di Roma, guidati dal prof. Mauro Maccarrone, hanno dimostrato per la prima volta che i pazienti affetti da questa grave patologia – seconda causa di ricovero, dopo il parto, in Italia e che colpisce l’1,2% delle persone tra i 18 e i 40 anni – mostrano livelli ridotti di resolvina D1, molecola lipidica in grado di fermare lo stato infiammatorio persistente del cuore. La ricerca, pubblicata sulla rivista scientifica FASEB Journal, ha chiarito che in questi soggetti c’è anche una ridotta espressione del recettore capace di mediare gli effetti biologici della resolvina D1. Che, dunque, si candida a diventare un nuovo bio-marcatore della malattia nel sangue e un più efficace bersaglio delle terapie per sconfiggerla

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Roma, 20 settembre 2018 – I ricercatori dell’Università Campus Bio-Medico di Roma hanno scoperto e dimostrato, per la prima volta, il ruolo decisivo di una molecola lipidica, la resolvina D1, nell’insorgenza dell’insufficienza cardiaca cronica, patologia grave che si manifesta con l’impossibilità del cuore di pompare adeguatamente il sangue. Una malattia che in Italia rappresenta la seconda causa di ricovero, dopo il parto, colpisce il 10% della popolazione over 75 – nonché l’1,2% dei soggetti tra 18 e 40 anni – e si manifesta in un quarto dei pazienti con infarto entro quattro anni dall’evento.

Enormi le ricadute sociali per chi ne soffre: difficoltà a compiere sforzi fisici, fatica anche solo a salire una rampa di scale, gonfiori agli arti inferiori, ma anche capogiri o costipazione. La malattia si scopre con l’elettrocardiogramma e la visita cardiologica, ma viene certificata dall’eco-cuore, che quantifica la (ridotta) capacità di contrazione del muscolo cardiaco. A quel punto, il rischio di episodi di scompenso è sempre dietro l’angolo, fino alla necessità urgente di un trapianto.

Gli scienziati sono stati in grado di evidenziare la ridotta presenza della resolvina D1 nel sangue dei malati. “Un difetto – sottolinea il prof. Mauro Maccarrone, Ordinario di Biochimica presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia di UCBM e principal investigator della ricerca – che è originato da una ridotta capacità da parte delle cellule immunitarie dell’organismo di sintetizzare questo particolare lipide, tanto che meno è presente e più grave è la condizione patologica del soggetto”.

Lo studio, recentemente pubblicato sulla rivista scientifica FASEB Journal, è stato condotto in collaborazione con l’Unità Operativa Complessa di Geriatria del Policlinico Universitario Campus Bio-Medico diretta dal prof. Raffaele Antonelli Incalzi e ha visto come prima firma l’esperto internazionale di resolvine Valerio Chiurchiù, co-responsabile della ricerca e nel gruppo di lavoro di Maccarrone.

Gli esperti hanno altresì dimostrato che il ripristino di tale resolvina – simulato attraverso il trattamento in vitro dei linfociti T isolati dal sangue dei pazienti – non è comunque sufficiente a controllare le risposte infiammatorie che si originano nel muscolo cardiaco: questo perché è stato scoperto che i ridotti livelli di resolvina D1 sono accompagnati, nell’insufficienza cardiaca cronica, anche da una ridotta espressione del recettore responsabile di mediarne gli effetti biologici.

Lo studio ha svelato dunque la presenza di un difetto nel processo di risoluzione dell’infiammazione, che genera o si associa all’insufficienza cardiaca cronica. Controllando meglio le molecole in grado di ‘curare’ questa flogosi, dunque, si potrebbero aprire nuovi possibili scenari di cura.

“Tutto ciò – conferma Maccarrone – suggerisce che le resolvine potrebbero rappresentare un nuovo bio-marcatore plasmatico per questa patologia del cuore. Non solo: potrebbero diventare anche un potenziale bersaglio terapeutico per sviluppare, nel prossimo futuro, farmaci più efficaci rispetto a quelli oggi disponibili”.

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