Innovativo metodo INGV stima la profondità dei terremoti storici per prevedere la distribuzione di quelli futuri

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Un team di ricercatori dell’INGV ha elaborato un nuovo metodo per valutare la profondità dei terremoti del passato sulla base degli effetti dei terremoti recenti

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Figura 1

Roma, 30 ottobre 2019 – Uno studio condotto da ricercatori dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) ha messo a punto un nuovo metodo che consente di valutare la profondità dei terremoti del passato utilizzando esclusivamente le cosiddette “intensità macrosismiche”, ovvero la descrizione degli effetti che il sisma ha prodotto in un determinato luogo secondo la scala Mercalli.

“A parità di magnitudo, la profondità di un terremoto determina differenze drastiche nella violenza dello scuotimento sismico e nella sua distribuzione – spiega Paola Sbarra, ricercatrice dell’INGV e autrice dell’articolo – se ne è avuta una prova molto evidente il 21 agosto 2017, quando un terremoto di magnitudo 4.0, che avrebbe causato solo molto spavento se avesse avuto la profondità tipica della sismicità appenninica – circa 10 km – è avvenuto invece a 1 km di profondità sotto Casamicciola, a Ischia, provocando crolli e molti danni, seppure in un’area di dimensioni limitatissime”.

Le tecnologie e le strumentazioni che si hanno oggi a disposizione consentono di stimare con grande precisione sia le coordinate epicentrali dei terremoti, sia la loro profondità. Molto di quello che si sa sulla sismicità di qualunque area del globo dipende, tuttavia, da terremoti storici, ovvero avvenuti in epoca pre-strumentale. In un terremoto storico le intensità stimate per le singole località si possono considerare come le tessere di un puzzle: se sono poche, non è possibile applicare i metodi analitici oggi disponibili per valutare la profondità del sisma, e il puzzle resta incompleto.

Il metodo innovativo messo a punto dal team dell’INGV ha consentito di calibrare una relazione che lega la profondità di un terremoto alla distribuzione dell’intensità macrosismica. Per farlo sono stati studiati venti terremoti avvenuti tra il 1983 e il 2019, per i quali si hanno a disposizione dati relativi sia alla profondità strumentale, sia a un gran numero di osservazioni sull’intensità con cui ogni singolo evento è stato risentito dalla popolazione a diverse distanze dall’epicentro: terremoti che, nell’insieme, rappresentano una sorta di moderna “stele di Rosetta” sismologica.

Da circa dieci anni, infatti, grazie alla collaborazione dei cittadini è possibile contare su una conoscenza approfondita degli effetti dei terremoti recenti, che l’INGV raccoglie con il sito http://www.haisentitoilterremoto.it/, attraverso il quale chiunque può far pervenire le proprie osservazioni su uno specifico evento sismico: si tratta della prima applicazione sismologica del meccanismo del “crowdsourcing”, reso oggi sempre più efficace dall’ampia diffusione degli smartphone.

“Conoscere la profondità dei terremoti storici è fondamentale per poter stimare correttamente la magnitudo di ciascun evento del passato e per associarlo a una specifica faglia sismogenetica: un passaggio particolarmente critico nelle regioni in cui alla stessa localizzazione epicentrale possono corrispondere faglie poste a diverse profondità, come avviene nell’Appennino settentrionale e in Pianura Padana – conclude Paola Sbarra – il nuovo metodo permette di descrivere con maggior dettaglio le faglie in grado di generare futuri terremoti e, quindi, di prevedere efficacemente la distribuzione geografica dello scuotimento atteso”.

Figura 1 – Mappa dell’area di studio, che mostra tutti i terremoti di M> 3.5 verificatisi tra il 1985 e il 2019 (cerchi vuoti: dati da INGV). I terremoti di profondità nota, utilizzati per costruire la “Stele di Rosetta”, sono indicati con i punti blu; i terremoti del passato per i quali abbiamo calcolato la profondità sono indicati con i punti rossi. Le caselle arancioni sono le proiezioni superficiali delle sorgenti sismogenetiche presenti nel database DISS dell’INGV. In grigio scuro sono evidenziati i depositi quaternari della Pianura Padana. Il riquadro in alto a sinistra mostra una sezione schematica dell’Appennino settentrionale

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