Abuso di alcol, quali conseguenze sul fegato. Un farmaco senza effetti collaterali rivoluziona il trattamento

Le linee guida sui principali effetti negativi del consumo di alcol di AISF su Digestive and Liver Disease commentati dal prof. Giovanni Addolorato, Associato di Gastroenterologia, Università Cattolica di Roma, e Direttore UOSD Medicina Interna e Patologie Alcol-Correlate, Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, tra gli autori della pubblicazione

Il prof. Giovanni Addolorato e la sua equipe

Roma, 25 maggio 2020 – I disturbi da alcol, che vanno dall’abuso alla dipendenza da bevande alcoliche, rappresentano uno dei principali fattori di rischio di mortalità prematura in Europa e sono responsabili di oltre 200 patologie da quelle psichiatriche, alle malattie croniche, ai tumori, agli incidenti. Ma non solo.

L’abuso di alcol è la più frequente causa di malattie del fegato nel mondo occidentale, abbracciandone tutto il repertorio dalla steatosi (fegato grasso), alla steatoepatite (fegato grasso infiammato), alla fibrosi (‘cicatrizzazione’ del fegato), alla cirrosi (fegato sostituito da tessuto fibrotico-cicatriziale e non più funzionante), al cancro.

Al momento l’alcol è la più frequente causa di cirrosi epatica nel mondo occidentale (oltre il 60% del totale), per la riduzione delle malattie epatiche da virus C (dovuta nuovi farmaci antivirali) da una parte e per il crescente abuso di bevande alcoliche dall’altro.

L’Associazione Italiana per lo Studio del Fegato (AISF) ha di recente pubblicato su Digestive and Liver Disease delle linee guida pratiche sull’argomento che includono tutte ultime novità in campo clinico e di ricerca. Ne abbiamo parlato con il primo autore, il prof. Giovanni Addolorato, Professore Associato di Gastroenterologia, Università Cattolica di Roma, Direttore UOSD Medicina Interna e Patologie Alcol-Correlate Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS.

Alcol, giovani e lo ‘sballo’
“Il solo parlare di ‘abuso di alcol’ nei ragazzi – chiarisce il prof. Addolorato – è un ossimoro, un’assurdità. I ragazzi non solo non devono ‘abusare’, ma non devono proprio avvicinarsi all’alcol perché non sono in grado di metabolizzarlo (i sistemi enzimatici deputati a questo sono immaturi almeno fino ai 18 anni). Purtroppo negli ultimi anni abbiamo mutuato dai Paesi del Nord Europa un’abitudine, una modalità di assunzione di alcol molto pericoloso: il cosiddetto binge drinking”.

Tecnicamente si tratta dell’assunzione di 5 o più drink nei ragazzi (o di più di 4 nelle ragazze) in un intervallo di tempo molto ristretto (da 15 minuti a 1-2 ore). Questo perché concentrare l’assunzione di alcol in poco tempo dà uno ‘sballo’ molto più forte che non assumendo la stessa quantità di alcol nel corso di tutta la serata. Se tutto questo avviene a stomaco vuoto, l’effetto tossico dell’alcol è ancora maggiore e naturalmente più pericoloso.

Un effetto collaterale dell’edonismo dei ragazzi – che tengono molto all’aspetto fisico e a non ingrassare – è la cosiddetta ‘drunkressia’. Si beve tanto e non si mangia, per compensare le tante calorie (7,1 per grammo) assunte con l’alcol.

“Uno studio che abbiamo effettuato qualche tempo fa nei licei romani, supportato da Fondazione Roma e pubblicato su Scientific Reports – ricorda il prof. Addolorato – ha evidenziato che nel binge drinking i nostri adolescenti hanno superato i loro ‘maestri’ del Nord-Europa, visto che a praticarlo sono il 60% dei liceali della Capitale, contro il 35% degli altri”.

Un ‘divertimento’ che purtroppo si traduce in tante giovani vite spezzate: l’abuso dell’alcol, secondo dati dell’Istituto Superiore di Sanità, è la prima causa di morte nei ragazzi fino a 24 anni (vedi incidenti del sabato sera).

Quanto ‘troppo’ è troppo?
“La quantità di alcol ‘tollerata’- spiega il prof. Addolorato – è di 2 drink al giorno per l’uomo e di 1 drink per la donna. Sempre ai pasti e mai a stomaco vuoto. Per ‘drink’ si intende l’unità internazionale pari a circa12 grammi di etanolo e che corrisponde a una lattina di birra da 33 ml o a un bicchiere di vino o a un bicchierino di superalcolico”.

Ma anche questa quantità ‘moderata’ diventa eccessiva (e questo è riportato anche nelle linee guida del National Institute on Alcohol Abuse and Alcoholism-NIAAA dei NIH americani) in tutte quelle condizioni in cui vi sia una controindicazione fisica (ad esempio minori e anziani, persone che hanno già patologie croniche, come un danno epatico, in terapia farmacologica cronica, gravidanza, ecc.), psicologica o sociale o lavorativa (persone che lavorano sulle impalcature, autisti, ecc.).

Le conseguenze dell’alcol sul fegato
Chiunque abusi di alcol ha una steatosi epatica, ma se mantiene l’astensione dalle bevande alcoliche vedrà regredire completamente questo danno. Al contrario, se continua a bene il danno progredisce; nel 40-60% di queste persone comparirà un’infiammazione cronica delle cellule del fegato (‘epatite’); anche in questo caso, smettendo di bere, si può ancora far regredire il danno.

Viceversa, continuando a bere, il 20-25% dei pazienti passa dall’epatite cronica, alla cirrosi epatica; a quel punto, smettere di bere (che è comunque auspicabile per non peggiorare la situazione), sebbene non consenta di tornare indietro, comunque è indispensabile per arrestare la progressione del danno.

La diagnosi si fa sulla base dell’imaging: ecografia addominale ed elastografia (che determina il grado di fibrosi, cioè di cicatrizzazione del fegato). Nei casi più gravi si ricorrere alla diagnosi istologica, cioè alla biopsia del fegato.

Bere ‘troppo’: stile di vita sbagliato o malattia?
“Dire al paziente ‘smetti di bere’ – afferma il prof. Addolorato – purtroppo non porta da nessuna parte. Non si beve per scelta a certi livelli; l’ordine parte dal cervello, dalla parte più antica del nostro sistema nervoso (il sistema meso-limbico corticale) che è quello che regola anche il tono dell’umore e la maggior parte dei comportamenti necessari a tutti gli animali per far perdurare la specie (il sonno, il cibo, la riproduzione). Il sistema risponde a questi stimoli liberando i neurotrasmettitori della gratificazione (serotonina, dopamina e GABA). Purtroppo però questo sistema, quando si sregola, risponde allo stesso modo alle sostanze psicotrope (eroina, cocaina, benzodiazepine, alcol). E quando si perde il controllo sull’assunzione di queste sostanze, smettere di bere o di assumere droghe non è più una scelta, perché l’ordine, una volta che si è in deprivazione, parte da quella parte del sistema nervoso che è svincolato dal nostro controllo. È come se io volessi ordinare al mio cuore di non battere. Tanto per chiarire subito le cose dunque, l’abuso di alcol non è né di un vizio, né di una cattiva abitudine, ma una malattia vera e propria e già codificata da almeno 50 anni con i criteri del DSM”.

Secondo l’ultima edizione (la quinta) del DSM, la diagnosi si fa attraverso due criteri principali: 1) il paziente ha continuato ad usare una sostanza, nonostante la consapevolezza di avere un problema fisico, psicologico o sociale che ne controindichi l’uso; 2) il paziente beve non per gustare un bicchiere di vino, ma per ricercare gli effetti psicotropi dell’alcol (il cosiddetto craving, distinto in relief carving – bevo per ridurre i livelli di tensione – o il reward craving – bevo per ricercare un aumento del tono dell’umore).

Come se ne esce
“Come per tutte le malattie – spiega il prof. Addolorato –  è fondamentale la presa in carico del paziente che si basa su tre capisaldi da utilizzare insieme: la terapia farmacologica, il trattamento di supporto psicologico individuale e di gruppo. Abbiamo a disposizione diversi farmaci cosiddetti anti-craving, due dei quali identificati dal nostro gruppo di ricerca. Purtroppo quasi nessuno può essere utilizzato nei pazienti con epatopatia avanzata, perché vengono metabolizzati dal fegato. Qualche anno fa abbiamo dunque cominciato a studiare il baclofen (un farmaco che non viene metabolizzato dal fegato, ma viene eliminato in maniera immodificata dal rene), dimostrandone l’efficacia e la sicurezza anche nei pazienti cirrotici (lo studio è stato pubblicato da Lancet nel 2007). Avere a disposizione un farmaco efficace, maneggevole e senza effetti collaterali ha rivoluzionato il trattamento di questi pazienti”.

“Qui al Gemelli abbiamo integrato il centro alcologico all’interno del centro epatologico e lavoriamo tutti insieme – prosegue Addolorato – E il fatto che il paziente epatopatico con disturbi da abuso di alcol debba essere trattato col modello integrato lo abbiamo esplicitato anche nelle linee guida dell’AISF (Associazione Italiana Studio del Fegato). Alla luce dei risultati dei tanti studi clinici effettuati sull’argomento che hanno dimostrato la superiorità di questo approccio (addirittura anche nei pazienti candidati a trapianto di fegato), non è infatti più accettabile che un centro di malattie del fegato non abbia al suo interno un team con expertise nel campo dei disturbi epatici da alcol (che attualmente sono responsabili della maggior parte delle epatopatie croniche). Purtroppo in Italia la situazione è ancora a macchia di leopardo e non tutti i centri epatologici hanno integrato nel loro interno le figure specifiche per la gestione delle patologie alcol-correlate”.

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