Sindrome dell’intestino irritabile, il ruolo centrale della flora batterica

Roma, 9 aprile 2024 – La sindrome dell’intestino irritabile è uno dei temi trattati dalla Società Italiana di Gastroenterologia ed Endoscopia Digestiva (SIGE), durante il XXX Congresso Nazionale delle Malattie Digestive a cura della Federazione italiana delle società delle malattie dell’apparato digerente (Fismad), in corso a Roma dall’11 al 13 aprile, presso l’Hotel Ergife. Si tratta di un disturbo della funzione motoria del tratto digestivo, sia dell’intestino tenue che del colon, che è stimato colpire tra l’8 e il 13% della popolazione occidentale.

“La sindrome – spiega Bruno Annibale, ordinario di Gastroenterologia all’Università Sapienza Roma – è diffusa soprattutto nella popolazione femminile, specie tra le fasce giovanili, con un secondo picco tra i cosiddetti boomer (60-70enni) che seguono uno stile di vita giovanile e hanno modalità di lavoro ancora attive. Ad essa spesso si associa una grande co-morbidità con i disturbi dell’umore, anche psichiatrici, come depressione e ansia”.

I sintomi sono gonfiore, mal di pancia, alterazione della evacuazione e soprattutto dolore. Stando alle linee guida Roma IV per i criteri diagnostici dei disturbi gastrointestinali, elaborate dalla Rome Foundation[1], la sindrome dell’intestino irritabile viene diagnosticata solo in caso di dolore. Secondo questi studi, la diagnosi è clinica, compiuta ascoltando il paziente, valutando attentamente i sintomi con questionari standardizzati. Un lavoro difficile, lungo e complesso che richiede molta attenzione da parte del medico.

“Le terapie possono essere diverse – conferma il docente – tanto è vero che la sindrome dell’intestino irritabile ancora oggi in realtà riceve un trattamento sintomatico, ma è decisivo avere un colloquio costante col paziente per identificare la possibile cura”.

Negli ultimi anni, “sempre maggiori evidenze scientifiche hanno associato la sindrome dell’intestino irritabile alla flora batterica, presente non solo nel tratto digestivo basso, ma anche in quello alto, con microorganismi variabili sia per numero che per tipologia a seconda della sede intestinale”, sottolinea Luca Frulloni, Presidente della SIGE e ordinario di Gastroenterologia dell’Università di Verona.

“Tuttavia – prosegue Frulloni – i precisi meccanismi attraverso i quali la flora batterica intestinale modifica la funzionalità intestinale non sono ancora stati chiaramente definiti, per l’enorme numero di microorganismi presenti, per la varietà di specie rappresentate, e per la loro variabilità anche nei soggetti sani.

“Sono molti e diversi – riprende il prof. Annibale – i fattori che influenzano la composizione della flora batterica intestinale, quali ad esempio farmaci, l’alimentazione, le malattie. È intuibile come sia ancora difficile comprendere la complessità di tutti questi elementi nel singolo paziente”.

Ne consegue che la manipolazione ed il miglioramento in senso qualitativo delle popolazioni batteriche, virali e fungine che compongono il microbiota è ancora difficile. “Quel che è certo – osserva Annibale – è che ad oggi le conoscenze sul microbioma, ovvero l’insieme del patrimonio genetico e delle interazioni ambientali della totalità dei microrganismi dell’intestino, del microbiota sono ancora sperimentali e stentano ad arrivare alla pratica clinica. Di conseguenza, sia farmaci che strategie terapeutiche in grado di modulare con efficacia questo nostro patrimonio intestinale sono di difficile ottenimento”.

Riguardo all’utilità clinica dell’impiego dei test fecali del microbiota, messi a disposizione da diverse strutture anche on line, ci sono ancora dei dubbi. “Si tratta di test per lo più commerciali – conclude il prof. Bruno Annibale – che dimostrerebbero eventuali riduzioni, modificazioni della numerosità, anche di una specie batterica singola, che però le società scientifiche internazionali non hanno mai validato. Di fatto, l’interpretazione di questi test fecali è assolutamente ancora lontana dal farne un esame diagnostico perché, ad esempio, ciò che sta nelle feci non corrisponde esattamente a quello che invece è clinicamente significativo e rilevabile nell’epitelio intestinale, ma ottenibile solo con biopsie attraverso la colonscopia”.

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