Colture agrarie, la biodiversità delle piante infestanti preserva la produttività

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Studio del Gruppo di Agroecologia dell’Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e dell’Institut National de la Rechèrche Agronomique di Digione, in Francia, pubblicato su “Nature Sustainability”

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Un’ape mentre bottina un fiore di Galactites tomentosa. Pisa 2015 (foto di Stefano Carlesi, Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa)

Pisa, 15 novembre 2019 – Mantenere un certo livello di biodiversità nelle comunità di piante infestanti che convivono con le colture agrarie contribuisce, al contrario di convinzioni diffuse nella comunità accademica, a ridurre le perdite di produzione: è il risultato di una ricerca triennale basata su una collaborazione internazionale tra il Gruppo di Agroecologia dell’Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant’Anna e l’Institut National de la Rechèrche Agronomique (INRA, sede di Digione, in Francia), pubblicata sulla rivista scientifica “Nature Sustainability”.

Questa ricerca fa parte del progetto di dottorato di ricerca di Guillaume Adeux, allievo del PhD in Agrobiodiversity della Scuola Superiore Sant’Anna, co-supervisionato da Paolo Bàrberi, docente di Agronomia e Coltivazioni Erbacee all’Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant’Anna, e da Stefano Carlesi, tecnologo, da parte italiana e da Stéphane Cordeau e Nicolas Munier-Jolain, rispettivamente ricercatore junior e senior, da quella francese.

Secondo questo studio, condotto dal giovane studioso e dai suoi colleghi, la riduzione di resa delle colture dovuta alla competizione da parte della vegetazione spontanea non è tanto da imputare alla loro presenza quanto alla riduzione della loro diversità. Infatti, osservando con maggiore attenzione l’effetto delle così dette “malerbe”, si può notare come non tutte producano gli stessi danni alle colture. Comunità di specie più diversificate producono minori danni, in misura inversamente proporzionale all’equilibrio tra le specie.

La ragione, spiegano gli autori nello studio, è da ricercare in alcune proprietà emergenti della biodiversità: mediante un utilizzo razionale delle risorse disponibili e all’occupazione delle cosiddette “nicchie ecologiche”, le specie spontanee presenti impediscono ad altre particolarmente aggressive e competitive di insediarsi o diventare dominanti, e quindi di causare ingenti riduzioni di produzione. I risultati appena pubblicati portano un ulteriore contributo al rafforzamento dell’ipotesi che la biodiversità sia un fattore positivo non solo negli ecosistemi naturali ma anche negli agroecosistemi.

Questo approccio agro-ecologico consente di guardare alle produzioni agrarie da una nuova prospettiva, come sottolineano gli autori della ricerca: basandosi sulla conoscenza delle interazioni tra specie diverse, si possono mantenere o migliorare le rese agricole riducendo in maniera significativa input quali concimi e pesticidi e, di conseguenza, anche il loro impatto sulla salute umana.

Attraverso l’utilizzo della “biodiversità funzionale” e il rispetto degli equilibri ambientali, la natura può ‘lavorare’ per noi, fornendo “servizi ecosistemici” tra i quali una produzione agraria sufficiente in termini quantitativi e di qualità, diminuendo in maniera significativa l’utilizzo di energia e di sostanze dannose in potenza.

Eppure al crescente interesse per l’agro-ecologia sia da parte di istituzioni internazionali come la FAO e la Commissione Europea sia della società civile, non corrisponde al momento un significativo riscontro nel mondo della ricerca, soprattutto in Italia.
A detta di Stefano Carlesi, le ragioni della discrepanza sono da ricercare “in questo genere di ricerche, molto dispendiose in termini di tempo. Per ottenere risultati pubblicabili – sottolinea Carlesi – servono come minimo tre anni di lavoro. Per poter evidenziare gli effetti delle rotazioni colturali o delle pratiche agricole sulla fertilità del suolo non è raro dovere attendere 5, 7 anni o più”.

“Noi – aggiunge Paolo Bàrberi – crediamo invece che il futuro della ricerca stia nella collaborazione transdisciplinare e nel non aver paura di esplorare strade nuove e apparentemente poco redditizie. Non si può ridurre la scienza ad un mero e triste calcolo di indicatori di produttività che ignorano l’impatto sulla società. I risultati di questa ricerca rafforzano la nostra convinzione secondo la quale l’approccio che abbiamo scelto è vincente. Spero vivamente – conclude Paolo Bàrberi – che a breve divenga il nuovo paradigma di riferimento per la comunità scientifica, per il bene della scienza”.

Link alla pubblicazione https://www.nature.com/articles/s41893-019-0415-y

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