Tumore ovarico: diagnosi tempestiva e farmaci antiangiogenici

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Intervista al prof. Giovanni Scambia, Direttore Unità Operativa Complessa di Ginecologia Oncologica e Coordinatore del Polo Salute della Donna e del Bambino – Policlinico universitario “A. Gemelli” Roma

Giovanni Scambia Direttore Unità Operativa Complessa di Ginecologia Oncologica del Policlinico Gemelli

Prof. Giovanni Scambia

Qual è attualmente l’impatto del tumore ovarico in Italia e nel mondo?
Il cancro ovarico rappresenta circa il 30% di tutti i tumori maligni dell’apparato genitale femminile e occupa il decimo posto tra tutti i tumori nelle donne, con il 3% di tutti i casi. Le forme epiteliali hanno un’incidenza del 60%. Ogni anno in Italia vengono diagnosticati 5.000 nuovi tumori ovarici e 30.000 circa sono le donne attualmente in trattamento. Considerata la prevalenza, ovvero il numero di malate viventi con tale patologia, si stima in base ai dati dei Registri Tumori che in Italia vi siano circa 40.000 donne viventi con tale neoplasia, vale a dire circa 140 donne ogni 100.000. Nel mondo si stimano 200.000 nuovi casi all’anno e nell’Unione Europea circa 60.000.

Quali sono i principali fattori di rischio? Ci sono donne che hanno maggiori probabilità di ammalarsi? Che ruolo svolgono le mutazioni geniche BRCA1 e BRCA2 e quanto è importante identificarle?
Diversi sono i fattori di rischio riportati in letteratura: il rischio relativo appare aumentato nelle donne con menarca precoce o menopausa tardiva; esso è incrementato nelle donne di razza bianca che vivono nei Paesi industrializzati. Ciò si potrebbe imputare sia ai modelli riproduttivi sia a componenti ambientali, come la dieta, ma ad oggi non ci sono dati definitivi in proposito.

Il fattore di rischio meglio studiato è quello della familiarità: nelle donne con storia familiare di cancro ovarico e cancro della mammella il rischio di ammalarsi è incrementato. Pertanto le donne con storia familiare di cancro ovarico nelle parenti di primo grado sono da considerare ad alto rischio (RR > 3). Il rischio raddoppia se vi sono due o più parenti di primo grado con cancro ovarico. È stato riscontrato che donne con mutazioni geniche di BRCA1 e BRCA2 sono maggiormente predisposte allo sviluppo di carcinoma ovarico e mammario.

Dati più recenti mostrano, inoltre, che vi è una quota di pazienti (circa il 20-30%) con tumore ovarico sporadico, quindi non familiare, portatore di mutazioni BRCA1/2. La storia naturale di tali malattie è assimilabile a quella di pazienti portatrici di mutazione eredo-familiare, quindi è molto importante analizzare lo stato di BRCA per pazienti senza familiarità accertata.
L’individuazione della mutazione dei geni BRCA1/2 è importante per valutare non solo la prognosi ma presenta anche un valore predittivo rispetto alla risposta ai trattamenti mirati sulle mutazioni BRCA che a breve saranno a disposizione degli oncologi.

A oggi per il tumore ovarico non esistono strumenti di prevenzione, né test per lo screening precoce. La conoscenza dei sintomi è quindi fondamentale per la diagnosi tempestiva. Quali sono i sintomi più comuni? A quali segnali una donna dovrebbe prestare particolare attenzione?
Il tumore ovarico nell’80% dei casi si presenta allo stadio III/IV poiché è subdolo, caratterizzato dall’insorgenza di sintomi vaghi e aspecifici, quali la dispepsia, la distensione addominale, l’anoressia, la sazietà precoce e dolori addominali diffusi. Frequentemente la paziente è asintomatica finché ad una visita di routine non si scopre una massa pelvica. Pertanto se compare un sintomo nuovo che diventa persistente nel tempo, è importante rivolgersi tempestivamente al proprio ginecologo o al proprio medico curante così da effettuare indagini semplici (ecografia), ma estremamente sensibili nella individuazione di masse addominali o di liquido in addome. Difatti ad oggi non esiste un test di screening che ci permetta di effettuare prevenzione di tale patologia.

Che ruolo gioca la diagnosi tempestiva rispetto alla prognosi delle donne colpite da questa patologia?
La diagnosi delle neoplasie ovariche dovrebbe essere la più tempestiva possibile perché il trattamento multidisciplinare, chirurgico e medico, della malattia in fase iniziale dà risultati soddisfacenti sia in termini di prognosi che di sopravvivenza. Basta pensare come negli stadi iniziali (IA-IB) la sopravvivenza a 5 anni è del 70-90%.

Quali sono attualmente le strategie e le opzioni terapeutiche disponibili per il tumore ovarico? Quali opportunità di trattamento offrono le terapie mirate antiangiogeniche? Come funzionano e come vengono utilizzate in combinazione con la terapia tradizionale?
Una volta diagnosticata una neoplasia ovarica è raccomandabile effettuare una valutazione presso Centri con esperienza nella gestione di tali patologie. Il chirurgo ha un ruolo fondamentale nel management delle neoplasie ovariche: la chirurgia è necessaria sia per la determinazione della reale estensione di malattia in sede addominale, sia per l’asportazione più completa possibile del tumore stesso. Qualora l’estensione di malattia non consenta una chirurgia radicale, quest’ultima può essere effettuata in un secondo tempo, cioè dopo aver sottoposto la paziente a cicli di chemioterapia così da rendere possibile una chirurgia ottimale. Dopo la chirurgia, la paziente effettua la chemioterapia di prima linea contenente platino e paclitaxel, che presenta un tasso di risposte elevato (fino al 70% delle pazienti).

Nonostante l’efficacia dei farmaci utilizzati, il 70% delle pazienti trattate in stadio avanzato sviluppa una recidiva di malattia; fino a pochi anni fa, a seconda dell’intervallo di tempo trascorso tra il completamento della chemioterapia di prima linea e la recidiva, le pazienti venivano trattate con regimi contenenti platino oppure con farmaci quali la doxorubicina liposomiale, la gemcitabina, il paclitaxel settimanale. Negli ultimi anni nell’armamentario del ginecologo oncologo e dell’oncologo medico si è aggiunto un farmaco antiangiogenico – il bevacizumab – che agisce bloccando la formazione dei neovasi tumorali. Il bevacizumab è utilizzato sia in associazione alla chemioterapia standard, che alla fine di essa come mantenimento, così da effettuare un trattamento della durata complessiva di 15 mesi. L’associazione ha determinato un miglioramento della curabilità di tale patologia senza un’alterazione della qualità di vita delle nostre pazienti.

fonte: ufficio stampa

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