Tumore alla prostata, la radioterapia cardine del trattamento in una logica multidisciplinare

Intervista alla prof.ssa Barbara Jereczek, Professore associato di Radioterapia, Università degli Studi di Milano; Direttore Divisione di Radioterapia, Istituto Europeo di Oncologia (IEO), Milano

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Prof.ssa Barbara Jereczek

Quanto è importante l’approccio multidisciplinare e la collaborazione tra urologo, oncologo medico e radioterapista, sia nella fase che precede la diagnosi sia nel successivo percorso di cura? Cosa si sta facendo per rafforzare questo tipo di approccio?
Il lavoro di squadra e la collaborazione tra le diverse figure specialistiche sono fondamentali, perché permettono ai clinici di scegliere la terapia più idonea per il singolo caso. Per esempio, l’oncologo medico e l’urologo sono esperti nei loro rispettivi settori, ma non in quello della radioterapia o dell’anatomia patologica, discipline per le quali esistono specialisti dedicati. Siamo complementari. Alcuni studi dimostrano che il lavoro multidisciplinare e la collaborazione tra le varie figure specialistiche migliorano del 10% i risultati clinici in oncologia. Anche in Italia, come in molti Paesi questa esigenza è stata recepita. Da qui nasce la volontà di creare delle Prostate Cancer Unit simili a quelle già esistenti per il tumore della mammella. Questo obiettivo è più complesso per i centri più piccoli dove è maggiore la difficoltà ad avere accesso alle tre figure principali – urologo, oncologo medico e radioterapista – coinvolte nel processo terapeutico decisionale, e dove comunque si potrebbe ricorrere all’utilizzo della telemedicina e la multidisciplinarità è auspicabile.

Una delle strategie terapeutiche disponibili per il trattamento del tumore prostatico è la radioterapia: come si è evoluta negli anni e quanto è importante questo approccio per il cancro della prostata?
La radioterapia ha subito nei decenni una vera e propria rivoluzione e continua ad essere uno dei pilastri del trattamento del tumore prostatico, con un ruolo importante in tutte le fasi della malattia, non solo in quella iniziale. Nella malattia iniziale, o organo-confinata, cioè circoscritta alla prostata, la radioterapia costituisce una valida alternativa alla chirurgia, tanto da essere stata definita “chirurgia virtuale”; viene utilizzata solitamente nei pazienti che presentano controindicazioni alla chirurgia o che la preferiscono come tipo di approccio. Sia la chirurgia che la radioterapia sono due metodiche di approccio locale alla malattia, ma con un profilo di tossicità diverso e diverse conseguenze: la prima può dare come esito incontinenza urinaria e impotenza, la seconda può provocare infiammazione dei tessuti (il tasso dell’impotenza sembra essere più basso rispetto alla chirurgia radicale). In questi ultimi anni l’evoluzione tecnologica sia della chirurgia e della radioterapia ha ridotto l’impatto degli effetti collaterali e migliorato la qualità di vita degli pazienti oncologici. Quando la malattia è localmente avanzata, ossia con estensione extraprostatica alle strutture adiacenti alla ghiandola, senza però metastasi ma con un elevato rischio di recidiva, viene utilizzato un approccio combinato radioterapia ed ormonoterapia, oppure una chirurgia seguita da radioterapia adiuvante a scopo precauzionale. Nei casi di malattia metastatica, oligometastatica, ossia con un numero limitato di metastasi, si può utilizzare la radioterapia mirata selettiva sulle singole metastasi; se, invece, sono presenti numerose metastasi sintomatiche (es. dolore, come nel caso delle metastasi ossee) la radioterapia assume un ruolo di palliazione, ed ha lo scopo di ridurre la sintomatologia dolorosa, che può essere molto invalidante per il paziente.

Quali sono i trattamenti radioterapici disponibili e come vengono utilizzati nelle diverse fasi della malattia?
Attualmente disponiamo di numerose modalità di trattamento radioterapico: una di queste è la brachiterapia, che consiste nell’impianto di sorgenti radioattive all’interno della ghiandola prostatica, nei casi di malattia iniziale. Il 99% dei pazienti trattati con radioterapia, però riceve la radioterapia a fasci esterni, non invasiva, caratterizzata da radiazioni più forti e più concentrate rispetto a quelle che si usano nella radiodiagnostica. Le tecniche a disposizione, grazie agli enormi progressi tecnologici, si sono altamente affinate, ciò ha permesso l’utilizzo di dosi elevate ed altamente selettive di radiazioni anche per singola seduta di radioterapia, offrendo un ampio ventaglio di opportunità per tutti gli stadi di malattia. Basti pensare che fino a qualche anno fa i cicli di radioterapia erano molto lunghi, potendo durare anche due mesi; adesso in tante situazioni cliniche la terapia è ipofrazionata, vale a dire che viene somministrata una dose equivalente a quella della radioterapia tradizionale, ma con un numero nettamente inferiore di sedute ambulatoriali. La riduzione del numero di sedute è strettamente collegata alle maggiori conoscenze radiobiologiche del tumore della prostata, che hanno evidenziato come esso sia più sensibile a “dose per frazione”, o per seduta, ciò significa che il tumore risponde meglio a cicli più brevi.

Recentemente a Torino si è svolto il Congresso Europeo di Radioterapia. Quali sono le novità emerse per quanto riguarda il tumore prostatico da questo importante evento?
Le novità sono numerose e per tutte le fasi di malattia. Al meeting sono stati presentati dati di efficacia e di minore tossicità degli attuali trattamenti radioterapici. La ricerca è impegnata a trovare nuovi biomarcatori molecolari e a studiare il profilo genetico dei pazienti, cosa che ci permetterà, tra qualche anno, di predire ad esempio il rischio di ripresa di malattia del tumore prostatico, o la tossicità legata ai trattamenti effettuati. Il nostro gruppo ha presentato i dati di una ricerca tuttora in corso, finanziata da AIRC, in cui i pazienti sono trattati con un sovradosaggio di radiazioni dirette al tumore prostatico principale e inoltre, sotto guida della risonanza magnetica, vengono eseguite biopsie mirate della lesione tumorale. L’obiettivo è individuare biomarcatori molecolari che aprano la strada ad una sempre più precisa selezione dei pazienti, nonché ad un preciso utilizzo delle risorse terapeutiche, grazie all’identificazione di caratteristiche biologiche e genetiche in grado di predire la sensibilità o resistenza al trattamento radioterapico.

fonte: ufficio stampa

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