Tumore dell’ovaio, in Italia solo il 65% delle donne esegue il test genetico

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Gli inibitori di PARP sono efficaci nel controllare la malattia in fase avanzata. Fabrizio Nicolis, presidente Fondazione AIOM: “Tutte le pazienti devono essere sottoposte all’esame per verificare la mutazione BRCA. Troppe le differenze regionali. E gli strumenti di prevenzione siano estesi ai familiari”

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Roma, 5 marzo 2019 – Il tumore dell’ovaio fa meno paura. Rappresenta la quinta causa di morte per cancro nelle donne 50-69enni in Italia, ma i decessi legati alla malattia diminuiscono: nel 2015 (ultimo anno disponibile) sono stati 3.186, nel 2013 ne erano stati registrati 3.302, con un calo del 3% in due anni. Il merito è da ricondurre a terapie sempre più efficaci, che permettono di controllare la malattia anche nello stadio metastatico. Tra queste, si annoverano anche i farmaci inibitori di PARP, oggi utilizzabili sia nelle pazienti BRCA mutate che non mutate.

“Le armi contro il tumore dell’ovaio spaziano dalla chirurgia alla chemioterapia fino alle terapie mirate, in cui rientrano gli inibitori di PARP – spiega Fabrizio Nicolis, Presidente Fondazione AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica) – Conoscere lo stato mutazionale dei geni BRCA è sempre molto importante ed il test dovrebbe essere effettuato su tutte le pazienti (con le caratteristiche indicate nelle Raccomandazioni AIOM-SIGU-SIBioC-SIAPEC-IAP 2019) al momento della diagnosi. È questa la via da seguire per definire le migliori strategie terapeutiche e iniziare il percorso familiare che potrebbe permettere l’identificazione di persone sane con mutazione BRCA, nelle quali impostare programmi di sorveglianza o di chirurgia (annessiectomia bilaterale) per la riduzione del rischio di sviluppare il tumore ovarico. Ma, ancora oggi, non tutte le pazienti che dovrebbero essere sottoposte al test BRCA lo eseguono. Inoltre, in Italia, il regime di rimborsabilità per questo esame varia nelle diverse Regioni, con la conseguenza che viene effettuato solo nel 65,2% delle donne che ricevono la diagnosi”.

Oncologi e pazienti, in una conferenza stampa che si svolge oggi al Ministero della Salute, chiedono alle Istituzioni di uniformare le modalità di accesso al test BRCA sul territorio nazionale.

“Serve più impegno nel migliorare le strategie di prevenzione di una neoplasia che, nel 2018, ha causato in Italia 5.200 nuovi casi, l’80% dei quali individuati in fase avanzata – afferma Stefania Gori, Presidente Nazionale AIOM e Direttore dipartimento oncologico, IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria-Negrar – Se il tumore è confinato all’ovaio, la sopravvivenza a cinque anni raggiunge il 90%, mentre scende al 15-20% negli stadi avanzati. Circa il 20% delle neoplasie ovariche è ereditario, cioè causato da specifiche mutazioni genetiche. BRCA1 e BRCA2 sono due geni che producono proteine in grado di bloccare la proliferazione incontrollata di cellule tumorali. Queste proteine partecipano a meccanismi di riparo del DNA, garantendo l’integrità dell’intero patrimonio genetico. Quando sono mutate, cioè difettose, il DNA non viene riparato correttamente e si determina un accumulo di alterazioni genetiche, che aumenta il rischio di cancro. Una mutazione di BRCA1 e BRCA2, ereditata dalla madre o dal padre, determina una predisposizione a sviluppare il tumore più frequentemente rispetto alla popolazione generale”.

“L’informazione sull’eventuale presenza della mutazione BRCA va acquisita al momento della diagnosi, perché può contribuire alla definizione di un corretto percorso di cura che parta dalla prima linea di trattamento – continua la Presidente Gori – E, nei familiari che presentano la mutazione, devono essere avviati programmi di sorveglianza intensiva che spaziano dai controlli semestrali fino all’asportazione chirurgica delle tube e delle ovaie”.

Le donne che ereditano la mutazione BRCA1 hanno una probabilità del 44% di sviluppare un tumore ovarico nel corso della vita. La percentuale è inferiore per il gene BRCA2 (17%). Lo studio “Every Woman”, promosso dalla World Ovarian Cancer Coalition, condotto su 1.531 pazienti di 44 Paesi ha evidenziato che, in Italia, prima della diagnosi il 56,5% delle donne non aveva mai sentito parlare di questa neoplasia e solo il 65,2% è stato sottoposto al test genetico.

“Per sensibilizzare i cittadini sulla malattia e sull’importanza di accedere al test, Fondazione AIOM ha pubblicato un Quaderno informativo, realizzato con il supporto non condizionato di Clovis Oncology – spiega il dott. Nicolis – Questa pubblicazione, che prende spunto dalle Linee Guida AIOM sul tumore dell’ovaio aggiornate nel 2018, si inserisce in una strategia complessiva di sensibilizzazione sulle diverse neoplasie che include 30 Quaderni indirizzati ai cittadini. Abbiamo realizzato anche l’opuscolo su ‘Test BRCA e prevenzione del carcinoma ovarico’. La mancata consapevolezza troppo spesso porta infatti le donne a sottovalutare i sintomi iniziali e ad arrivare alla diagnosi quando la malattia si è già diffusa ad altri organi”.

Il trattamento delle forme precoci è chirurgico, ma, di fronte a un rischio di recidiva del 25-30%, in molti casi viene prescritta una terapia chemioterapica precauzionale, dopo l’intervento. Nella malattia avanzata, è indicato un approccio chirurgico quanto più possibile radicale, seguito da chemioterapia. In alcuni casi, può essere necessario far precedere l’intervento chirurgico da alcuni cicli di chemioterapia (di solito tre) per ridurre la malattia e rendere la successiva chirurgia meno complessa.

“Il 70-80% delle pazienti affette da neoplasia ovarica in stadio avanzato presenta una recidiva entro i primi due anni dal termine del trattamento – sottolinea Domenica Lorusso, ginecologa oncologa presso la Ginecologia Oncologica, Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS di Roma – L’evoluzione delle terapie mediche ha consentito di migliorare significativamente le possibilità di cura di queste pazienti. Da un lato, vi sono i farmaci antiangiogenici che impediscono al tumore di sviluppare i vasi sanguigni che ne permetterebbero la crescita. Dall’altro lato, sono disponibili gli inibitori di PARP, efficaci sia nelle pazienti che presentano la mutazione dei geni BRCA che in quelle che ne sono prive. L’utilizzo di questi farmaci nel trattamento delle recidive di carcinoma ovarico ha prolungato in modo significativo l’intervallo libero da progressione della malattia. Queste molecole, inoltre, hanno il grande vantaggio di essere disponibili in formulazione orale e sono ben tollerate. Sono in corso studi molto promettenti che stanno valutando l’efficacia degli inibitori di PARP anche in prima linea, dopo l’intervento chirurgico, ed uno di questi ha già reso disponibili i risultati”.

“Sono poche le strategie efficaci per prevenire il tumore dell’ovaio – continua Valentina Sini, oncologa presso il Centro Oncologico ‘Santo Spirito-Nuovo Regina Margherita’ ASL Roma 1 – Fra i fattori protettivi, la multiparità, l’allattamento al seno e un prolungato impiego di contraccettivi orali. In particolare, donne con pregresse gravidanze multiple presentano una riduzione del rischio di circa il 30% rispetto a coloro che non hanno partorito. Una recente indagine ha dimostrato che l’uso prolungato di anticoncezionali riduce il rischio di incidenza di tumore ovarico nella popolazione generale, in particolare nelle donne portatrici di mutazione dei geni BRCA”.

Quattro società scientifiche, AIOM, SIGU (Società Italiana di Genetica Umana), SIBioC (Società Italiana di Biochimica Clinica e Biologia Molecolare Clinica) e SIAPEC-IAP (Società Italiana di Anatomia Patologica e Citologia Diagnostica), hanno firmato le “Raccomandazioni per l’implementazione del test BRCA nelle pazienti con carcinoma ovarico e nei familiari a rischio neoplasia”.

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