Fegato grasso, può degenerare in danno epatico. Al via progetto di ricerca europeo

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L’Università Cattolica – Fondazione Policlinico A. Gemelli di Roma tra i 47 centri di ricerca europei che partecipano al progetto coordinato dall’Università di Newcastle. Si punta a test (come quello del sangue) per eliminare la necessità di biopsia epatica

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Roma, 22 dicembre 2017 – Al via un pionieristico progetto di ricerca europeo che vedrà protagonisti gli scienziati dell’Università Cattolica e della Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli di Roma; obiettivo è sviluppare nuovi test diagnostici non invasivi per valutare i pazienti con steatosi epatica non alcolica (NAFLD, il fegato grasso) e identificare quelli più a rischio di sviluppare grave danno del fegato legato a infiammazione e fibrosi (ovvero un accumulo di cicatrici nel fegato che conduce alla cirrosi e può favorire il cancro).

Il progetto, intitolato Liver Investigation: Testing Marker Utility in Steatohepatitis (LITMUS), finanziato nell’ambito della European Innovative Medicines Initiative 2, riunisce medici e scienziati di 47 importanti centri accademici in tutta Europa e aziende della Federazione europea delle industrie e delle associazioni farmaceutiche (EFPIA).

LITMUS, che durerà 5 anni e ha ottenuto un finanziamento di 34 milioni di euro, punta quindi a superare la biopsia (un esame invasivo) per diagnosticare l’evoluzione patologica del fegato grasso.

“L’Università Cattolica e il Policlinico A. Gemelli”, spiega il dottor Luca Miele dell’Area Gastroenterologia – Polo Scienze Gastroenterologiche ed Endocrino-Metaboliche del Policlinico, “è partner del progetto coordinato dalla Università di Newcastle (prof. Q. Anstee)”.

Fino a qualche anno fa il fegato grasso era considerato una condizione benigna e sinonimo di benessere, mentre oggi i medici sanno che può evolvere (nel 2-3% dei casi) verso malattie più importanti come la fibrosi o precedere l’insorgenza del tumore del fegato. I fattori di rischio per il peggioramento della salute del fegato, in assenza di danno da alcol o da virus o da autoimmunità, sono la iperalimentazione, l’eccesso di fruttosio industriale, la vita sedentaria, il diabete, il sovrappeso/obesità e alcuni fattori genetici.

“L’alta prevalenza del fegato grasso nella popolazione generale (20-30% delle persone ha fegato grasso) e la stretta associazione con il diabete e con l’obesità (il 70% degli obesi, oltre l’80% dei diabetici hanno il fegato grasso) fanno sì che la steatosi epatica rappresenti attualmente la prima causa di malattia cronica del fegato, con conseguente incremento dei costi in sanità pubblica”, sottolinea il professor Antonio Gasbarrini, Ordinario di Gastroenterologia alla Cattolica e direttore dell’Area Gastroenterologica della Fondazione Policlinico Gemelli.

“Nei prossimi anni il fegato grasso diventerà la principale indicazione al trapianto di fegato, fenomeno che stiamo già osservando in USA”, afferma il professor Antonio Grieco, responsabile della Unità di Medicina del Trapianto di fegato del Gemelli.

“Anche in Italia stiamo osservando un importante incremento dei casi di tumore del fegato in assenza di malattie virali o dei noti fattori di rischio in soggetti che hanno un fegato grasso”, aggiunge il professor Gianludovico Rapaccini, direttore della Unità di Medicina Interna e Gastroenterologia del Gemelli.

L’elevata prevalenza e la possibile evoluzione verso la cirrosi e il tumore del fegato impongono una stretta osservazione del paziente con fegato grasso. Attualmente la biopsia epatica è considerata la migliore tecnica diagnostica invasiva per capire se il paziente con steatosi ha una malattia potenzialmente progressiva.

“Il progetto LITMUS unirà 47 centri europei coinvolgendo ospedali, università e industria e permetterà, grazie al supporto della comunità europea, di identificare e convalidare nuovi test diagnostici in grado di migliorare le capacità di diagnosi non invasiva attraverso le analisi del sangue e le tecniche di imaging (radiologiche e ecografiche) e personalizzare quindi i percorsi di diagnosi e cura consentendo di identificare le persone che hanno un maggior rischio di sviluppare una malattia più severa”, dichiara il dottor Miele, responsabile del progetto presso l’Università Cattolica, sede di Roma, e dell’ambulatorio dedicato alla steatosi epatica presso il Gemelli.

“Il nostro – afferma il dottor Miele – è uno dei centri clinici che si occuperà di reclutamento e gestione dei pazienti. I centri clinici coinvolti avranno la possibilità di testare i biomarcatori non invasivi che si basano su nuove tecnologie. Questo consentirà di sviluppare metodiche diagnostiche non invasive (esami del sangue e/o tecniche ecografiche e radiologiche) in grado di identificare le persone con steatosi che hanno un danno significativo e fibrosi del fegato senza dover ricorrere, in futuro, alla necessità di una biopsia. L’implementazione dei biomarcatori permetterà in futuro anche di ottimizzare e personalizzare i trattamenti farmacologici”.

“In passato molti pazienti arrivavano nei nostri ambulatori con una cirrosi epatica anche in assenza di storia di uso inadeguato di alcolici – prosegue Miele – di malattie virali e/o autoimmunitarie. Oggi sappiamo che una parte consistente di queste persone avevano, qualche anno prima, un fegato grasso. In futuro grazie al progetto LITMUS potremmo essere in grado di capire con l’uso di biomarcatori non invasivi quali pazienti avranno maggiori probabilità di sviluppare malattie gravi del fegato e questo consentirà un uso più appropriato delle risorse e una ottimizzazione delle terapie mediche”.

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