Alzheimer e decadimento mentale: nuovo approccio terapeutico con anticorpi prodotti in laboratorio

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A cura del prof. Carlo Ferrarese, Direttore Scientifico del Centro di Neuroscienze di Milano dell’Università di Milano-Bicocca e Direttore della Clinica Neurologica presso l’Ospedale San Gerardo di Monza

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La Società Italiana di Neurologia, e in particolare la SINDEM, è da tempo in prima linea per la ricerca sui meccanismi e sulle terapie di questa malattia. Dopo il fallimento delle terapie attuate nella fase di demenza conclamata, le sperimentazioni cliniche attuali sono rivolte alla prevenzione della malattia.

Nello scorso anno sono stati interrotti alcuni studi promettenti su nuove terapie per la Malattia di Alzheimer perché non rilevavano una sufficiente efficacia dei farmaci studiati. Questo ha portato alcune case farmaceutiche a disinvestire nella ricerca in questo campo e ha comprensibilmente indotto sconcerto tra i familiari di pazienti e nella stessa comunità scientifica.

Tuttavia, dati più recenti, indicano che agendo nelle fasi iniziali di declino della memoria, chiamate “declino cognitivo lieve o Mild Cognitive Imparment (MCI)”, gli stessi farmaci potrebbero rallentare la progressione verso demenza conclamata, perché si sono dimostrati efficaci nel bloccare i meccanismi biologici della malattia.

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Prof. Carlo Ferrarese

Alla base della malattia vi è l’accumulo progressivo nel cervello della proteina, chiamata beta-amiloide, che distrugge le cellule nervose ed i loro collegamenti.

Oggi sappiamo che la beta amiloide inizia ad accumularsi nel cervello anche decenni prima della comparsa di demenza, grazie ad una tecnica che consente di dimostrarne l’accumulo nel cervello, mediante la Positron Emission Tomography (PET), con la somministrazione di un tracciante che lega tale proteina. Analogamente è possibile analizzare i livelli di beta-amiloide nel liquido cerebrospinale, mediante una puntura lombare.

Queste tecniche permettono di stabilire un rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer prima della comparsa di gravi deficit cognitivi e rendono quindi fattibile l’avvio di strategie terapeutiche preventive. Queste ultime sono basate su molecole che determinano una riduzione della produzione di beta-amiloide, con farmaci che bloccano gli enzimi che la producono (beta-secretasi) o, in alternativa, con anticorpi capaci addirittura di determinare la progressiva scomparsa di beta-amiloide già presente nel tessuto cerebrale. Questi anticorpi, prodotti in laboratorio e somministrati sottocute o endovena, sono in grado di penetrare nel cervello e rimuovere la proteina.

Queste terapie sono attualmente in fase avanzata di sperimentazione in tutto il mondo, su migliaia di pazienti nelle fasi iniziali di malattia o addirittura in soggetti sani che hanno la positività dei marcatori biologici (PET o liquorali).

La speranza è di modificare il decorso della malattia prevenendone l’esordio, dato che intervenire con tali molecole nella fase di demenza conclamata si è dimostrato inefficace.
Nell’attesa dei risultati di queste terapie sperimentali, previsti per i prossimi anni, altri studi recenti indicano che vi sono efficaci strategie per ridurre la probabilità di ammalarsi in soggetti anziani normali o che presentano iniziali sintomi di decadimento cognitivo.

Sappiamo, infatti, che il danno prodotto dall’accumulo di amiloide nel cervello è potenziato da un danno dei vasi cerebrali, che a sua volta impedisce il passaggio della proteina dal cervello al sangue, facilitandone l’accumulo cerebrale.

Studi recenti hanno dimostrato infatti che la prevenzione dei noti fattori di rischio vascolare, quali ipertensione, diabete, obesità, fumo, vita sedentaria, è in grado di ridurre l’incidenza di demenza. Adottare adeguati stili di vita (attività fisica regolare, alimentazione ricca di sostanze antiossidanti come la dieta mediterranea) e lo stretto controllo delle patologie vascolari può quindi già oggi essere consigliato come la migliore strategia per ridurre il rischio di demenza.

Queste osservazioni cliniche sono avvalorate da recenti studi sperimentali che dimostrano, in un modello animale di malattia di Alzheimer, che l’attività fisica è in grado di favorire la produzione di nuove cellule cerebrali che sostituiscono quelle perse per la malattia, mediante la produzione di fattori neurotrofici.

Sia i dati degli studi clinici che quelli sperimentali aprono quindi nuove speranze per la prevenzione di questa devastante malattia.

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