Tumori: il Covid limita gli accessi in ospedale, e purtroppo manca un’adeguata assistenza territoriale

Massimo Di Maio, Segretario AIOM: “La pandemia ha acuito la mancanza di integrazione fra oncologia e medicina di famiglia. Il territorio va coinvolto nella cura dei cittadini colpiti da tumore”

Roma, 9 dicembre 2020 – Le misure di prevenzione al momento in atto in molti Paesi per limitare la diffusione di SARS-CoV-2 hanno definito, almeno per ora, la questione a lungo dibattuta se i medici di medicina generale debbano prendere parte alla gestione dei pazienti oncologici. Come evidenziato recentemente in un articolo su ESMO Perspectives, se le visite in ospedale devono essere ridotte per proteggere dal Covid-19 i gruppi potenzialmente a rischio elevato, l’assistenza ai pazienti colpiti da cancro potrebbe trarre beneficio dalla condivisione in futuro con gli operatori sanitari della comunità.

Secondo Massimo Di Maio, Segretario Nazionale AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica), è necessaria una migliore integrazione tra gli oncologi e le cure primarie, con un ruolo attivo per i medici del territorio in ogni fase del percorso di assistenza del malato di cancro.

Dott. Massimo Di Maio

“All’interno di AIOM – spiega Massimo Di Maio – abbiamo auspicato una migliore collaborazione con i medici di famiglia e gli altri professionisti sanitari, perché la pandemia di coronavirus ha esacerbato e reso evidenti a tutti noi le conseguenze della loro assenza”. Queste, secondo il Segretario AIOM, comprendono la generale insoddisfazione per l’assistenza fornita e una qualità di vita globale peggiore per i pazienti, essendo stato limitato l’accesso agli ospedali e mancando una assistenza qualificata a livello locale.

“Cosa più preoccupante, la scarsa comunicazione tra i centri oncologici e i medici sul territorio causa ritardi nell’accesso agli esami e agli specialisti durante la fase diagnostica, con potenziali ripercussioni sulle opportunità di diagnosi precoce dei pazienti”, aggiunge. Come si può rafforzare questa connessione all’inizio del percorso assistenziale, prima ancora che una persona diventi un paziente oncologico?

Le reti di riferimento diretto possono ridurre i tempi per la diagnosi
Presso il dipartimento Clínico-Malvarrosa Health di Valencia, in Spagna, è stato lanciato nel 2009 il programma Cancer Fast-track Programme (CFP), con la realizzazione di un network tra l’istituto oncologico e 32 centri di assistenza primaria nelle vicinanze. Sono state definite linee guida per cinque diversi tipi di tumori scelti a seconda della elevata incidenza o della suscettibilità nei confronti del ritardo nella diagnosi, e sono state comunicate ai medici di medicina generale per aiutarli a identificare e a riportare i potenziali casi al coordinatore del programma oncologico. Quest’ultimo discute i casi che sono stati sottoposti con un team di sei specialisti e un medico di medicina generale e indirizza i pazienti eleggibili direttamente al dipartimento ospedaliero di competenza per ulteriori indagini.

María Teresa Martínez, dell’Università di Valencia, ha condotto uno studio durato 10 anni sul programma fast-track, che da allora è stato realizzato in tutti gli ospedali della regione Comunidad Valenciana. Spiega come il programma abbia cambiato il percorso diagnostico per i pazienti: “Prima che adottassimo il programma CFP, i pazienti chiedevano l’opinione del loro medico di famiglia, che li avrebbe inviati a un centro specializzato – solo lì uno specialista li avrebbe valutati e indirizzati all’ospedale. Il nostro programma elimina questo passaggio intermedio.”

Commentando i risultati dello studio, presentati nel corso di ESMO Virtual Congress 2020 (Abstract 1595P), Martínez afferma: “Con il programma CFP, l’intervallo di tempo medio dalla visita iniziale di un paziente dal proprio medico di base fino alla conferma della diagnosi di cancro era di 19 giorni e 21 giorni nei casi di esclusione del cancro. Considerando che il processo convenzionale può richiedere diversi mesi, siamo riusciti a ridurre significativamente il tempo di attesa diagnostico per i pazienti con sospetta diagnosi di cancro”.

Su oltre 4.000 casi sospetti di cancro sottoposti al programma in un periodo di 10 anni, 1.116 hanno dato esito positivo: quasi tre quarti di questi erano tumori in stadio iniziale per i quali sono stati pianificati interventi terapeutici tempestivi. “Nel futuro avremo bisogno di esaminare ulteriormente se il programma CFP sia veramente in grado di facilitare la diagnosi in fase iniziale e determinare se questo abbia un impatto misurabile sulla sopravvivenza – aggiunge Martínez – Nel frattempo, è importante sottolineare i vantaggi di essere stati in grado di fornire rassicurazioni più rapidamente a tutti i pazienti a cui non è stato diagnosticato il cancro”.

Dati gli alti livelli di soddisfazione sia dei pazienti che dei medici riportati nell’analisi, il programma spagnolo offre una prova del concetto che stabilire una collaborazione formale tra medici di base e oncologi non solo è fattibile, ma è anche auspicabile. E con l’obiettivo per gli anni a venire di realizzarlo a livello nazionale, Martínez è convinta che non ci siano ostacoli reali perché i risultati sono stati raggiunti senza costi aggiuntivi, semplicemente ottimizzando le risorse esistenti. “Questo è anche il motivo per cui crediamo che, economicamente, questo modello potrebbe funzionare in qualsiasi sistema sanitario”, ha detto.

Un percorso facilitato per i sopravvissuti al cancro
Secondo Massimo Di Maio, migliorare la comunicazione, al momento limitata, tra medici di base e specialisti sin dalle prime fasi del percorso del paziente oncologico è un prerequisito per fornire cure oncologiche di base al di fuori dell’ospedale.

“Non appena il trattamento attivo inizia, noi oncologi dovremmo contattare il medico di base per informarlo sullo scopo del trattamento, sulle tossicità previste, nonché sull’evoluzione prevista della situazione clinica – afferma – Ogni volta che il paziente ha un’emergenza come sintomi acuti o gravi effetti collaterali a un certo punto della malattia, non ha altra scelta che rivolgersi all’oncologo per mancanza di un modo migliore per gestire la situazione. In realtà riscontriamo spesso che molti casi potrebbero essere gestiti localmente senza ricovero in ospedale, se fosse disponibile un aiuto adeguato da parte del medico di famiglia”.

Durante la fase critica dell’emergenza Covid-19 in Italia, all’inizio dell’anno, sono stati anche compiuti sforzi per trasferire alcuni trattamenti terapeutici dagli ospedali al contesto comunitario.

“Le terapie orali si adattano bene a questo perché i pazienti vengono in ospedale solo per effettuare un esame e ricevere il farmaco; entrambe le cose potrebbero essere gestite dal medico di medicina generale – spiega Massimo Di Maio – Sebbene ritenga improbabile che questo approccio possa essere generalizzato alle terapie endovenose a breve termine, i recenti casi in cui medici e infermieri hanno somministrato questi trattamenti ai pazienti a domicilio dimostrano che sono possibili approcci individualizzati”.

Se il rafforzamento della collaborazione tra oncologo e medico di famiglia promette di semplificare la gestione della malattia per i pazienti in trattamento attivo, i sopravvissuti al cancro sono quelli che possono trarne i maggiori benefici.

“Anche qui sappiamo che, dopo un certo tempo, è importante che queste persone non siano più gestite in ospedale, ma dal loro medico di famiglia e che non siano più trattate come malati di cancro, ma piuttosto come sopravvissuti che possono tornare alla vita normale”.

Affinché queste transizioni possano avvenire in modo semplice e efficace, tuttavia, i pazienti devono sentirsi sicuri che la collaborazione tra il loro medico di famiglia e l’oncologo garantisca la qualità del follow-up.

La formazione dei medici di famiglia nell’assistenza oncologica
Perché la pratica medica è rimasta indietro rispetto a una realtà che cambia, nonostante i nuovi forti incentivi per ridurre al minimo il tempo che i malati di cancro trascorrono in ospedale? La risposta del Segretario Nazionale AIOM è semplice: “Le risorse. La collaborazione fra oncologi e medici di medicina generale richiede reti ben funzionanti, e per realizzarle abbiamo bisogno di risorse – prima di tutto di risorse umane, sia in ospedale che sul territorio – per garantire la disponibilità e la qualità dell’assistenza”.

La cura del cancro è un’attività complessa, quindi oltre a una buona comunicazione, il rafforzamento delle opportunità di formazione degli operatori sanitari si trasformerebbe in miglioramenti nell’assistenza ai malati di cancro. “Un’opzione, proposta da AIOM in Italia, è quella di migliorare le competenze oncologiche nell’ambito della comunità, ad esempio attraverso medici territoriali specializzati in oncologia”, continua Massimo Di Maio, che prevede anche un modello in cui tutti i medici di famiglia ricevono una formazione intermedia nella gestione dei malati di cancro.

“Naturalmente, molto dipende dai mezzi disponibili per questo tipo di iniziativa in un dato sistema sanitario, ma credo fermamente che questo sia il modo in cui dovremmo procedere per rendere la cura del cancro più sostenibile – conclude – Basti pensare a quanti pazienti di questi medici svilupperanno una qualche forma di cancro durante la loro vita: ovviamente, sarebbe conveniente investire nell’aumento non solo delle loro interazioni con gli specialisti, ma anche della loro alfabetizzazione in campo oncologico”.

Nei mesi scorsi, la crucialità del rapporto stretto tra lo specialista, i medici di medicina generale e i servizi territoriali è stata esplicitamente discussa anche nel documento programmatico per la XV Giornata Nazionale del Malato Oncologico, condiviso da FAVO, AIOM, AIRO, SICO, SIPO e FNOPI. Un paragrafo di quel documento era infatti dedicato alla medicina del territorio e all’assistenza domiciliare, evidenziando che il territorio per alcuni aspetti non è pronto e che vanno costruiti percorsi e cultura.

“La pandemia – recita il documento – dovrebbe essere l’occasione per rafforzare ed innovare i modelli organizzativi socio-sanitari territoriali al fine di garantire una maggiore presa in carico del paziente oncologico, anche nelle cure palliative, attraverso l’integrazione e la semplificazione dei percorsi, la prossimità degli interventi e la continuità dell’assistenza”.

Proposte contenute nel documento erano la realizzazione di modelli organizzativi per la presa in carico dei malati oncologici con l’integrazione tra strutture ospedaliere e territorio, prevedendo il trattamento oncologico domiciliare in tutte le situazioni cliniche che lo consentono, nonché (oltre alla somministrazione delle terapie) la semplificazione di alcune procedure che al momento richiedono l’accesso in ospedale, nonché l’attivazione della figura dell’infermiere di famiglia e di comunità in tutte le Regioni, come previsto nel Patto per la Salute 2019-2021 per le cronicità, attualmente introdotta in modo disomogeneo sul territorio nazionale.

(fonte: AIOM News)

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