Patologie cardiovascolari, dall’indagine di Cittadinanzattiva tempi di attesa rispettati solo in un terzo delle strutture pubbliche

Roma, 12 gennaio 2022 – Cittadinanzattiva ha reso pubblici oggi i dati di “Mi sta a cuore: un’indagine sul paziente con patologia cardiovascolare”, che ha coinvolto – da luglio a settembre scorsi – 3.073 fra pazienti e medici con l’obiettivo di fare il quadro sull’organizzazione dei servizi, l’individuazione di criticità e occasioni di miglioramento dalla diagnosi alla presa in carico, fino alla gestione degli eventi acuti. Due questionari per coinvolgere pazienti, specialisti ospedalieri e medici di base, orientando l’indagine su temi quali la qualità dei servizi, le reti di presa in carico del paziente, l’informazione sui rischi e la gestione della patologia.

“L’indagine – commenta Francesca Moccia, vice segretaria generale di Cittadinanzattiva – mostra una buona capillarità di strutture e servizi sul territorio, presenti nel raggio di 40 km per oltre il 70% dei pazienti, ma una forte inadeguatezza dei modelli di gestione del percorso di cura, che rischia di vanificare l’efficacia degli interventi. Modelli applicati a macchia di leopardo che generano difficoltà d’accesso ai servizi e disuguaglianze territoriali. La cardiologia sta soffrendo gravi disagi legati ai ritardi di accesso alle prestazioni segnalati fin dalla prima fase emergenziale e che ancora oggi persistono senza soluzioni: quasi la metà dei cittadini intervistati si è vista sospendere o rimandare le visite senza data, mentre solo il 3% è stato inserito in programmi di telemedicina. La mortalità per patologie cardiovascolari è più che raddoppiata con la pandemia e per questo bisogna urgentemente intervenire per porre fine agli enormi danni che la mancata assistenza del paziente cardiovascolare sta determinando e di cui purtroppo già oggi conosciamo le proporzioni”.

Solo un terzo delle strutture pubbliche rispetta i tempi di attesa per visite ed esami
Emerge un quadro in cui il 70% degli intervistati è affetto da patologia cardiovascolare con esperienza pregressa di episodio acuto; il restante 30% dichiara invece uno o più fattori di rischio. Il 21,6% dei pazienti possiede una valutazione di rischio, non è così per oltre il 60% del campione. Il 18% risponde che addirittura non sa di avere ricevuto una valutazione del proprio rischio clinico.

In circa l’8% dei casi la visita o l’esame specialistico sono garantiti in 10 giorni (priorità “B”), nel 12% i tempi di attesa vanno invece dagli 11 ai 20 giorni. Il 54% riferisce di tempi di attesa anche superiori a 30 giorni. Per l’80% dei medici intervistati i tempi di attesa medi per la prima visita o esame specialistico per i loro pazienti vanno dai 21 giorni in su. I tempi di attesa, secondo gli intervistati, sono rispettati in ambito pubblico solo nel 30,4% dei casi, a fronte di una capacità del sistema privato accreditato pari al 60,8%.

I servizi di emergenza IMA e le Stroke Unit sono presenti nell’82% dei casi, ma c’è un 6% di medici che dichiara di non sapere se tali servizi sono presenti sul proprio territorio. Per l’individuazione di pazienti con rischio cardiovascolare, solo il 7,4% dei medici specialisti è in rete con il medico di medicina generale, nonostante l’accesso al Fascicolo Sanitario Elettronico sia sperimentato da due terzi dei medici, proprio come strumento di gestione multidisciplinare del paziente con patologia cardiovascolare. Solo nel 40,6% dei casi il medico di base riesce a prenotare la visita specialistica per il suo paziente; quasi l’80% dei medici intervistati valuta come opportuna l’estensione di tale possibilità.

Dimissioni e follow up poco efficaci per una buona parte di pazienti
L’effettiva presa in carico del paziente cardiovascolare è effettuata direttamente dagli ospedali attraverso percorsi specifici (65,3% dei casi), dalle strutture territoriali con la collaborazione del medico di base (22,7%) o solo da quest’ultimo (31,6%). Al momento delle dimissioni il 32,9% dei pazienti dichiara efficace l’organizzazione del post-ricovero, specie se accompagnato da materiale informativo e ausili.

Per il 42,7% è accettabile, anche se migliorabile, il percorso di dimissioni, mentre un 33% di pazienti lo ritiene scadente (per carenza di informazioni e figure di riferimento). Il sistema di presa in carico e monitoraggio della fase di follow up è giudicato efficace da poco meno del 45% dei pazienti, l’integrazione con gli altri servizi territoriali è soddisfacente nel 40% dei casi.

Durante la pandemia solo il 3% dei pazienti intervistati è stato inserito in programmi di telemedicina, mentre nello stesso periodo quasi la metà di loro si è vista sospendere o rimandare senza data le visite.

Quasi un paziente su due non aderisce appieno alle terapie
In questo quadro, il 98% di medici intervistati dichiara di informare sistematicamente i propri pazienti dell’importanza dell’aderenza terapeutica, ma per il 45% c’è una certa difficoltà da parte dei pazienti nel seguire le terapie assegnate (per il numero eccessivo di farmaci da assumere e gli effetti collaterali, soprattutto in presenza di comorbidità e di altre terapie già in corso).

Altra criticità che emerge è quella legata all’eccessiva burocrazia per il rinnovo dei piani terapeutici che limita la capacità, soprattutto dei pazienti fragili, di essere costanti nelle cure. Il 70% circa dei pazienti svolge regolarmente controlli, ma solo nel 30% dei casi si tratta di percorsi strutturati e scanditi temporalmente e organizzati da una struttura pubblica o dal medico di base: in oltre il 60% dei casi si tratta invece di controlli autogestiti semplicemente concordati, di volta in volta, con il medico.

Poca informazione per i pazienti sulla prevenzione e caregiver per nulla coinvolti nel percorso di cura
L’83% dei medici intervistati dichiara di dedicare sufficiente tempo al confronto con i pazienti sulle strategie di prevenzione primaria. Tuttavia, dall’indagine emerge che il 46% del campione dei pazienti si affida principalmente a fonti istituzionali per avere informazioni sui rischi della patologia, la sua gestione e gli stili di vita (sito del Ministero della Salute o ad altri Enti e Società scientifiche).

Solo il 16% consulta i servizi sanitari territoriali (medici di base e ASL), mentre quasi il 40% si affida ai social media, alla tv generalista o allo scambio di informazioni con conoscenti, amici o parenti. Solo il 24,6% del campione riferisce di essere stato coinvolto in percorsi più o meno strutturati. Nel 53 % dei casi si è trattato di incontri o eventi formativi in presenza o online, a fronte di una informazione che passa attraverso opuscoli informativi o singole campagne pubblicitarie che non coinvolgono direttamente i pazienti ma sono dedicate ad un pubblico generale (42.3%).

Sul ruolo dei caregiver, solo nel 6% dei casi vi è un coinvolgimento completo nel percorso di cura e/o assistenza, tramite partecipazione a programmi di educazione ed autogestione della patologia e dei corretti stili di vita e di aderenza terapeutica. Fondamentale il ruolo di accompagnamento dei pazienti con patologie cardiovascolari svolto dalle associazioni di tutela, che rappresentano un punto di riferimento nel 53,7% dei casi.

L’indagine è stata messa a punto in collaborazione con Fimmg e Gise (Società Italiana di Cardiologia Invasiva)

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