L’inquinamento ambientale aumenta il rischio di infarto. Studio dell’IRCCS Gemelli

Roma, 15 ottobre 2021 – L’aria inquinata uccide. Secondo l’OMS, ogni anno nel mondo sono almeno 4,2 milioni i decessi (per ictus, infarto, BPCO e tumore del polmone) attribuibili all’inquinamento dell’aria. E se è abbastanza intuitivo che la riduzione dell’aspettativa di vita possa essere legata ad un aumento di malattie dell’apparato respiratorio, meno chiari sono i meccanismi che legano l’inquinamento atmosferico alle patologie cardiovascolari, e in particolare al rischio di infarto miocardico e di arresto cardiaco.

Ma uno studio appena pubblicato su JACC Cardiovascular Imaging dalla cardiologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS ha individuato alcuni di questi meccanismi causali. In particolare è stata evidenziata un’associazione tra i livelli di esposizione alle polveri fini (PM2,5) e la presenza di placche aterosclerotiche più infiammate ed aggressive, cioè pronte a causare un infarto per rottura di placca, il peggiore tra i vari meccanismi che portano all’infarto.

Dott. Rocco Montone

“La nostra ricerca – spiega il primo autore dello studio, il dott. Rocco A. Montone, cardiologo interventista e di terapia intensiva cardiologica, presso la Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS – ha preso in esame 126 pazienti con infarto miocardico, sottoposti ad Optical Coherence Tomography (OCT), un’indagine con uno speciale microscopio che permette di visualizzare le placche coronariche direttamente dall’interno dei vasi”.

Le caratteristiche delle placche rilevate all’OCT, sono state quindi correlate con la precedente esposizione, per un periodo di almeno due anni, a vari inquinanti ambientali (PM2,5, PM10, monossido di carbonio), desunti dai dati delle centraline di rilevamento della qualità dell’aria, poste in prossimità della residenza dei pazienti.

Prof. Filippo Crea

“Questo studio – prosegue il dott. Montone – ha dimostrato per la prima volta che i pazienti che respirano a lungo aria inquinata, in particolare il particolato fine, che penetra in profondità nei polmoni (PM2,5) soprattutto respirando dalla bocca, presentano placche aterosclerotiche coronariche più ‘aggressive’ e prone alla rottura (sono più ricche di colesterolo e hanno un cappuccio fibroso più sottile). E infatti, nelle persone esposte ad elevati livelli di PM2,5, il fattore scatenante dell’infarto, risulta essere più spesso la rottura della placca aterosclerotica; le loro placche appaiono più ‘infiammate’ (cioè infiltrate da macrofagi) ed è presente anche un maggior livello di infiammazione sistemica, testimoniato dall’aumento dei livelli di proteina C reattiva (PCR) nel sangue”.

Questo studio, osservazionale e preliminare, rappresenta la prima indagine condotta ‘in vivo’ nell’uomo ad aver individuato un nesso patogenetico tra esposizione a lungo termine all’inquinamento ambientale e meccanismi di vulnerabilità e instabilità della placca coronarica, nei pazienti con infarto miocardico acuto.

“L’importanza di questi risultati è duplice – commenta il dott. Montone – da una parte ribadiscono l’importanza di adottare comportamenti individuali e politiche volte a contenere l’inquinamento dell’aria; dall’altra, una migliore comprensione dei meccanismi patogenetici alla base degli infarti correlati all’esposizione all’aria inquinata, potrebbe aprire la strada a terapie mirate, volte a minimizzare gli effetti negativi dell’inquinamento”.

“Negli ultimi anni – commenta il prof. Filippo Crea, Direttore UOC di Cardiologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, Ordinario di Malattie dell’apparato cardiovascolare all’Università Cattolica ed editor in chief di European Heart Journal – diversi studi hanno suggerito che l’inquinamento ambientale contribuisca ad aumentare il rischio di eventi cardiovascolari. La nostra ricerca ci permette di compiere un passo in avanti nella comprensione dei meccanismi patogenetici che legano l’inquinamento ambientale all’aumentato rischio di infarto miocardico. In particolare, il nostro lavoro dimostra che un ruolo cruciale è svolto ancora una volta da un’aumentata risposta infiammatoria sia a livello di placca coronarica, che sistemica”.

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