L’impatto della pandemia sulla salute mentale: le resistenze del disagio psichico e il lavoro ‘invisibile’ degli operatori

A cura del dott. Francesco Bernacchia, Psicologo della Salute, Operatore di Comunità Psichiatrica e coordinatore Progetti scolastici dell’Agenzia Nazionale per la Prevenzione

Roma, 18 gennaio 2021 – La storia si ripete. Sono passati quattro secoli dalla pestilenza manzoniana, dove alla paura di perdere tutto si contrapponeva il coraggio di proseguire il cammino. È ciò che accompagna la vita umana da sempre, che porta a continue trasformazioni del percorso di vita per necessità di cambiamento, di adattamento, di speranza e di coraggio.

Il coraggio dell’operatore ha rappresentato da sempre una peculiarità del suo lavoro, ancor più adesso, legato al fenomeno della pandemia “Covid-19”. Nella nuova emergenza che ha interessato la vita di tutti noi, il coraggio è un comune denominatore che guida le scelte, le prove e il contrasto alla paura ancestrale, profondamente radicata negli umani, che devono fare i conti con la loro vulnerabilità.

I media, nella loro variegata diversità, hanno dato forte visibilità al duro e intenso lavoro di medici, infermieri, operatori sanitari e altro personale, nelle terapie intensive e nelle residenze per anziani, luoghi in cui la battaglia si si gioca al limite delle risorse lavorative e soprattutto della resistenza umana. Il tributo di riconoscenza che l’Italia ha dedicato a queste risorse umane con applausi, dediche, programmi televisivi, ha permesso un riconoscimento e un forte incoraggiamento attraverso una nuova coscienza nazionale.

Dott. Francesco Bernacchia

La storia dunque si ripete. Si ripresenta una ‘pestilenza’, e come ai tempi di Manzoni, dietro una “caparbietà convinta” l’uomo cela il suo sentirsi impreparato, come a difendersi dalla fonte di ansia e dall’angoscia dello scenario che gli si presenta. Una sorta di lusso della negazione come strategia di contrasto allo stress, che l’operatore sanitario non può affatto concedersi in quanto chiamato a dare risposte immediate a domande poco chiare e incerte che provengono da una situazione nuova, anomala e minacciosa perché imprevedibile.

Ma tutto questo non accade solo nei reparti di terapia intensiva. Come quattro secoli fa, l’uomo si trova impreparato perché lontano da quel metodo che lo stesso Manzoni riteneva valido nel suo “preveder di osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare”. Si osserva il Covid nelle sue manifestazioni, si ascoltano i dubbi e le scoperte, si creano idee e opinioni col pensiero e la condivisione, ma paragonare cosa? Quali altri contesti hanno richiesto sacrificio, come le residenze per anziani o le terapie intensive?

Nel paragone difficilmente si menzionano le comunità terapeutiche e tutti i contesti nei quali ogni giorno si gioca la partita degli operatori per una nuova salute mentale. La concentrazione delle informazioni a livello mediatico su alcuni tipi di servizi ha certamente avuto la sua ragion d’essere nell’imminenza e nell’entità dell’emergenza, orientata al contrasto immediato e costante della morte.

Ma anche le comunità psichiatriche non sono state risparmiate. Tutti presi dalla gestione dell’emergenza, sembra essere sfuggita l’attenzione dei media al lavoro ‘invisibile’, ma pur sempre duro e stressante, di queste comunità.

Dove rintracciare i motivi di questa svista? Il peso del lavoro costante nel fronteggiare l’imprevedibilità dei comportamenti, tipico del disagio psichico, ha forse messo in secondo piano l’imprevedibilità del nuovo virus con il quale ogni operatore ha dovuto fare i conti mentre era proteso a garantire il processo di riabilitazione della persona. È il processo di cui la comunità vive.

Se da un lato la dimestichezza con l’imprevedibilità ha portato gli operatori a sottovalutare lo sforzo fisico e psicologico imposto dall’emergenza, dall’altro anche una forma di comune pensiero e di pregiudizio che vede questi contesti abituati al confronto con l’‘anormalità’, contribuisce a determinare quel silenzio che ha avvolto a livello mediatico il sacrificio e lo sforzo degli operatori di comunità. Seppur presenti risorse personali e professionali, però, anche le comunità si sono ritrovate provate, stanche e a tratti impaurite.

Come relazionarsi con pazienti che faticano a vedere nell’emergenza da affrontare un elemento di realtà? Pazienti che possono sentire il bisogno di negare la situazione per sfuggire alla componente emotiva che si ritroverebbe a dovere gestire, senza la possibilità di contare pienamente su competenze emotive spesso depauperate da anni di personale lotta al proprio disagio.

L’impatto della pandemia sulla condizione di salute mentale è evidente per l’ansia e i sintomi depressivi che produce. Ancora più se in presenza di problemi psichici importanti. Un ospite in comunità psichiatrica, durante l’imperversare della pandemia da Covid, manifesta disturbi di maggiore complessità e diviene resistente al cambiamento e ai trattamenti proposti.

La risposta è nel lavoro costante degli operatori alle prese con una nuova situazione di rischio, ma soprattutto con gli effetti che questa genera nel paziente che, nel suo rifiuto di una realtà ancora più pesante e difficile da gestire, si trova a negare il senso della mascherina sul viso, del distanziamento e ciò che è peggio, del mancato incontro coi suoi familiari. Il rifiuto di accogliere e accettare questa nuova condizione si tramuta spesso in aggressività nei confronti dell’operatore, che viene percepito nella sua mente come l’artefice di un piano persecutorio nei suoi confronti.

Le paure dell’ospite, accolte e ascoltate, implicano costantemente la capacità dell’operatore di comunità di saper gestire la propria emotività, cosa imprescindibile per un operatore di comunità, ma pur sempre fonte di stress e maggiore difficoltà durante un’emergenza.

La riprogrammazione costante delle attività e della quotidianità trasformata in catalizzatore costante di problemi, di richieste e di necessità, seppure pane quotidiano per l’operatore, lasciano poco spazio alla riflessione e alla possibilità di scelta. Il rifiuto dell’ospite di assumere la terapia e la gestione delle reazioni prendono a volte la forma di proteste verso le restrizioni imposte dai Dpcm. Sebbene spiegati e presentati come protettivi, vengono spesso percepiti come strumenti di vessazione.

In definitiva è un fenomeno che mina i risultati di autonomia e salute psicologica precedentemente raggiunti e sembra vanificare mesi o anni di investimento personale e professionale. Si tratta di una situazione che chiede un ripensamento della comunità e del suo funzionamento, ma soprattutto del ruolo professionale e della delicata arte della cura come forma di relazione nonostante il contesto di avversità da fronteggiare.

Nessuno ne parla. Eppure, nelle comunità psichiatriche, la pandemia da Covid non ha fatto sconti agli operatori, costretti a mettere da parte ogni timore in favore di un piano di emergenza costantemente in divenire, che deve confrontarsi con le resistenze del disagio psichico. Rispetto al Covid, la malattia mentale può infatti assumere una funzione paradossalmente rassicurante per il paziente. Perché la riconosce, gli è già nota e in apparenza meno rischiosa nell’immediato.

La negazione della realtà, solitamente tipica di un disagio psichico, si rivela anche un modo per non confrontarsi con l’esistenza della pandemia e delle paure ad essa correlate. Di conseguenza, un quadro clinico che si inasprisce richiede un maggiore impegno dell’operatore che, seppure provato, continua a dare molto di più di quello che umanamente e professionalmente può dare. Egli deve trovare sempre il modo di proseguire il lavoro di reinserimento sociale ma all’interno di un vero paradosso: lavora per un inserimento sociale possibile in una condizione di isolamento sociale certo.

L’ospite di una comunità di riabilitazione si aspetta che l’operatore si faccia carico del fatto che i familiari non possano far loro visita durante il lockdown. Non è facile rispondere a esigenze basilari come queste. In una situazione di chiusura non sono più scontate e routinarie.

Dal lavaggio di indumenti all’acquisto di beni di prima necessità, compresa la realizzazione di mascherine quando il mercato non le garantiva. Mascherine realizzate da una psicologa o un operatore socio sanitario nel turno di notte per non sottrarre energie alle richieste del giorno. Una situazione che nell’operatore nasconde forme di ripensamento del suo ruolo, congelando anche la possibilità di interrogarsi sulla giusta modalità di esercitarlo per rispondere ad una emergenza che pone ancora fin troppe domande.

Sono tutti aspetti che nella pratica determinano il lavoro di un operatore di comunità in tempi di pandemia Covid. Che si tratti di un infermiere o di uno psicologo, di un medico o di un operatore socio-sanitario, poco conta. Ognuno dà e mette a disposizione quella parte di sé che al di là del ruolo caratterizza la sua persona e la sua professionalità. Non si tratta di una semplice riorganizzazione ma di una dimensione emotiva che nelle comunità ogni operatore deve gestire e con dignità salvaguardare per continuare ad esercitare per gli ospiti una funzione di guida, contenimento e supporto.

Difficilmente un operatore di queste comunità trova riconoscimento e incoraggiamento in programmi radio-televisivi. Nel silenzio del suo lavoro, coi propri colleghi, riesce a tacere la propria stanchezza e la frustrazione per la vanificazione di tanti progetti terapeutici che stentano a progredire e garantire all’ospite un miglioramento delle sue condizioni.

Pochi mezzi di comunicazione si sono interessati a ciò, ma nonostante tutto, molta è stata ed è la soddisfazione e la dignità di un operatore che antepone la propria mission ai timori che il Covid porta con sé.

La storia si ripete. Almeno Manzoni ci rende giustizia. Poneva attenzione al silenzioso lavoro di coloro che “meritano che se ne faccia memoria, con ammirazione, con tenerezza, con quella specie di gratitudine che è dovuta, come in solido, per i gran servizi resi da uomini a uomini, e più dovuta a quelli che non se la propongono per ricompensa”. (Promessi Sposi, Feltrinelli, pag. 378).

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