Grazie ai nuovi strumenti di valutazione del rischio individuale, è possibile effettuare ‘salite in sicurezza’
Milano, 25 luglio 2016 – La montagna non deve essere un tabù per i cardiopatici. È questo il messaggio lanciato dal Centro Cardiologico Monzino per gli appassionati di alta quota. Oggi è infatti possibile prevedere per ciascuno gli eventuali rischi per il cuore stimando con precisione gli effetti dell’altitudine sul sistema cardiocircolatorio, garantendo così una “salita in sicurezza”.
“Valutando le condizioni specifiche di ciascuno – dichiara Piergiuseppe Agostoni, coordinatore dell’Area di Cardiologia Critica del Centro Cardiologico Monzino – attualmente possiamo essere molto precisi nello stabilire se una persona può raggiungere l’alta quota, quale tempo di acclimatamento deve rispettare, fino a quali altezze può spingersi, quali farmaci eventualmente deve assumere per stare meglio. Oppure, se già assume una terapia stabiliamo come dobbiamo modificarla ed eventualmente rafforzarla”.
L’altitudine mette alla prova il cuore. All’aumentare della quota diminuisce la disponibilità di ossigeno presente nell’aria e, per compensare questa mancanza, il corpo aumenta il lavoro cardiaco, respiratorio, e la pressione arteriosa. Ma non è tutto: in quota è limitata anche la capacità dell’organismo di utilizzare l’ossigeno. Ci si trova così ad avere, da un lato, meno ossigeno a disposizione, e dall’altro un’inferiore capacità di utilizzarlo. Aumenta così il rischio di infarto e ictus per gli individui già sofferenti. Se poi in quota si pratica sport, il rischio a cui ci si espone è ancora maggiore perché il fabbisogno di ossigeno dell’organismo aumenta.
“I rischi dell’alta quota per il cuore sono noti da tempo – continua Agostoni – e a ragione i cardiologi precauzionalmente sconsigliavano le vacanze sui monti. Alcuni pazienti addirittura, sebbene non in condizioni particolarmente critiche, nemmeno chiedevano al medico e rinunciavano alla montagna a priori, per paura. Altri invece, troppo spesso, sono stati vittime di tragedie perché sono saliti in quota in modo del tutto inappropriato. Oggi possiamo evitare questi due estremi perché abbiamo nuove conoscenze, tecnologie e strumenti che ci permettono di stabilire il livello di rischio per ciascuno, e di intervenire su quel rischio abbassandolo”.
Se per chi soffre di malattie respiratorie croniche, ad esempio bronchiti o malattie ostruttive croniche, la montagna resta vietata, non è così per il cardiopatico. “Ogni caso è diverso dall’altro e deve essere valutato nella sua specificità. Due accorgimenti validi sempre però ci sono: sottoporsi a uno sforzo graduale e salire piano – osserva infine Agostoni – In Italia la montagna è a portata di mano ed è facile raggiungere in poco tempo quote elevate. Basta pensare, per esempio, che da Milano in meno di tre ore si raggiungere il Piccolo Cervino, una delle stazioni più alte delle Alpi a circa 3.800 metri di altezza. A queste altitudini la quantità di ossigeno a disposizione è circa la metà di quella che abbiamo in pianura. Se una persona non è preparata, o non è stata adeguatamente valutata, può trovarsi nei guai, soprattutto se sosta in quota per un certo tempo”.
Il Centro Cardiologico Monzino ha un particolare focus di ricerca orientato allo studio del comportamento dell’organismo in montagna, anche sotto sforzo e durante attività fisica. Ha partecipato a progetti scientifici internazionali sul Monte Rosa, sulle Ande, al campo base dell’Everest soggiornandoci per quattro settimane analizzando in particolare come, in carenza di ossigeno, cambia il modo di respirare e l’attività del sistema cardiovascolare. Attualmente sono allo studio avanzati sistemi di monitoraggio di attività cardiaca e respiratoria nell’arco di più giorni, con dispositivi indossabili.
fonte: ufficio stampa