Usando approcci integrati di risonanza magnetica, i ricercatori del San Raffaele hanno confermato il legame tra alti livelli di infiammazione durante il Covid-19 e l’emergere, a mesi di distanza, di sintomi e alterazioni cerebrali tipiche di depressione e disturbo da stress post-traumatico
Milano, 11 novembre 2021 – I pazienti Covid-19 con livelli di infiammazione sistemica più alti sono quelli a maggior rischio di soffrire, nei mesi successivi alla guarigione, di depressione e di sindrome da stress post-traumatico (PTSD). Non solo, ma come in tutti i pazienti con questo tipo di disturbi psicopatologici, alla presenza dei sintomi clinici si associa spesso un’alterazione della connettività funzionale e di volume e microstruttura della materia grigia e della materia bianca, tutti parametri misurabili tramite tecniche di risonanza magnetica.
Sono questi i risultati di una ricerca condotta su 42 pazienti Covid-19 ricoverati presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano. A firmare lo studio, pubblicato su Brain, Behavior, & Immunity – Health, è il gruppo di ricerca in Psichiatria e Psicobiologia Clinica del San Raffaele, diretto da Francesco Benedetti, medico psichiatra e professore associato presso l’Università Vita-Salute San Raffaele. Lo studio sottolinea l’importanza di seguire con attenzione il decorso dei pazienti Covid-19 anche dopo la dimissione e conferma il fattore di rischio rappresentato da infezioni gravi – e dalle relative risposte infiammatore – nell’insorgenza di disturbi d’ansia e dell’umore.
Covid-19 e sequele psicopatologiche: lo studio San Raffaele
I 42 pazienti oggetto dello studio sono stati ricoverati presso l’Ospedale San Raffale per polmonite Covid-19 durante la seconda ondata della pandemia – dall’autunno del 2020 – e sono stati seguiti per almeno tre mesi dopo le dimissioni, all’interno dell’ambulatorio dedicato al follow-up presso la sede di San Raffaele Turro. L’età media dei soggetti – di cui due terzi sono uomini – è 54 anni. Nessuno di loro aveva mai sofferto di depressione o disturbo da stress post-traumatico prima dell’infezione, né aveva sofferto di lesioni cerebrali durante la fase acuta della polmonite.
Il gruppo di ricercatori del prof. Benedetti aveva già descritto in precedenti studi la persistenza, fino a tre mesi dopo la dimissione, di sindromi ansiose e depressive nei pazienti guariti da forme gravi di Covid-19 e il legame tra queste sindromi e il livello di infiammazione sistemica rilevato nella fase acuta di malattia, quando i pazienti erano ancora ricoverati presso l’ospedale.
Anche in questo caso, nei 42 pazienti ricoverati è stato misurato l’SII, il cosiddetto indice sistemico di infiammazione, che misura tramite prelievo di sangue l’intensità della reazione infiammatoria prodotta dall’organismo per combattere l’infezione. Nei mesi successivi alla dimissione però, oltre alla valutazione psichiatrica – tramite test standardizzati – è stato aggiunto un nuovo elemento al quadro clinico di questi pazienti: grazie alle tecnologie presenti nel CERMAC – il Centro d’Eccellenza per la Risonanza Magnetica ad Alto Campo diretto dal prof. Andrea Falini, primario di Neuroradiologia – i ricercatori hanno potuto esaminare anche la connettività funzionale (il modo in cui diverse aree cerebrali comunicano tra loro), la struttura della materia bianca e il volume locale della materia grigia. Si tratta del primo studio di questo tipo a indagare le conseguenze psicopatologiche del Covid-19.
“I dati raccolti dallo studio dimostrano un’alterazione di tutti e tre questi parametri. In particolare si osserva una associazione sia del volume della materia grigia sia dell’integrità della materia bianca, a cui si aggiunge una ridotta connettività funzionale, con i sintomi presentati nel long-Covid e con la infiammazione durante la fase acuta della malattia”, spiega il prof. Francesco Benedetti.
“Questo è in linea con quanto si osserva nei pazienti con forme depressive endogene, come la depressione maggiore o il disturbo bipolare, a ulteriore dimostrazione che l’emergere di sintomi depressivi nei pazienti sopravvissuti alle forme iper-infiammatorie di Covid-19 non deve essere sottovalutato. È una condizione la cui durata andrà verificata nel tempo, e che potrebbe spiegare anche i problemi cognitivi che di regola accompagnano il long-Covid”.
Disturbi dell’umore e infiammazione
Del resto, al di là del Covid-19, è noto da tempo che infezioni gravi – come quelle da influenza o da polmonite virale – possono precedere episodi di depressione maggiore. Il meccanismo causale alla base di questo “innesco” è ancora poco chiaro, ma l’indiziato numero uno è il sistema immunitario e in particolare la risposta infiammatoria scatenata per combattere l’infezione. A confermare questa ipotesi c’è anche il fatto che depressione e infiammazione sono strettamente legate tra loro: nei pazienti con disturbi dell’umore si riscontra spesso un basso ma persistente livello di infiammazione che non può essere spiegato da altre condizioni mediche.
“La pandemia Covid-19 ci sta permettendo di studiare il rapporto tra depressione e infiammazione come mai prima, e potrebbe aiutarci a comprendere di più di questa malattia. Allo stesso tempo, non solo ricerche come quella appena pubblicata, ma anche quanto già noto sul rapporto tra infezioni e disturbi dell’umore, dovrebbero farci tenere alta la guardia: le forme gravi di Covid-19 possono avere conseguenze a lungo termine anche dal punto di vista psichiatrico. Un motivo in più per vaccinarsi e una responsabilità per tutti noi che ci occupiamo di salute mentale”, conclude il prof. Benedetti.