Milano, 26 febbraio 2021 – Guidare l’auto, prendere un caffè al bancone del bar, raggiungere gli scaffali in cucina sono alcune delle abitudini quotidiane a cui deve rinunciare una persona adulta affetta da acondroplasia che non si è sottoposta all’allungamento degli arti.
Grazie invece a un protocollo ortopedico, ideato già nel 1982 dall’ASST Gaetano Pini-CTO di Milano, chi ha questa patologia, che comporta la brevità degli arti e un rapporto alterato tra lunghezza degli arti e del busto, può raggiungere 1,50 metri d’altezza, ottenendo notevoli benefici in termini di salute fisica ma anche di benessere psicologico. Ne parla il dott. Antonio Memeo, Direttore dell’Ortopedia e Traumatologia Pediatrica dell’ASST Gaetano Pini-CTO ed esperto nella tecnica dell’allungamento degli arti, in occasione della Giornata della Malattie Rare che si celebra il 28 febbraio.
“L’acondroplasia – spiega il dott. Memeo – è una malattia rara, di origine genetica, provocata dall’alterazione del gene FGFR3 responsabile della codifica di un recettore appartenente alla famiglia dei fattori di crescita fibroblastica che ha la funzione di stimolare la proliferazione della cartilagine di coniugazione. A causa di questa alterazione, quindi, le ossa non si sviluppano correttamente e questo determina un danno funzionale. L’allungamento degli arti risolve questa problematica se le operazioni chirurgiche sono eseguite in età pediatrica quando ossa e cartilagine sono in fase di sviluppo”.
Pur essendo oramai un protocollo di routine, il percorso che porta all’allungamento degli arti resta lungo e faticoso per il paziente pediatrico e per la famiglia: “L’ospedalizzazione non dura molto, sono le cure domiciliari post operatorie, alternate alle visite ambulatoriali, a protrarsi nel tempo. Per questo il primo punto da cui parte il nostro iter è sincerarci, anche avvalendoci di un supporto psicologico, che sia il bambino sia la famiglia siano pienamente consapevoli del percorso”.
I vantaggi che l’operazione comporta in termini di accettazione di se stessi, miglioramento dello stato di salute perché si evitano patologie conseguenti l’acondroplasia e la possibilità di raggiungere una totale autonomia sono i motivi per cui quasi tutti i pazienti scelgono di sottoporsi all’allungamento degli arti.
“Il protocollo che utilizziamo da quasi 40 anni e che nel corso del tempo abbiamo sempre più affinato e migliorato, essendo il nostro un centro di riferimento per le persone con acodroplasia, prevede la correzione delle deviazioni assiali degli arti inferiori con l’obiettivo di restituire l’armonia delle forme, per cui raddoppiamo anche la lunghezza degli arti inferiori”.
L’allungamento avviene in 5 tempi: si parte a 6 anni e il percorso finisce a 15 anni. Si lavora in maniera alternata su tibie e femori e l’ultimo intervento è sugli arti superiori (omeri). “Con questo procedimento otteniamo un allungamento complessivo degli arti inferitori tra i 28 e i 35 centimetri e raddoppiamo la lunghezza degli omeri”, spiega il dott. Memeo. Il processo comincia con l’osteotomia, ovvero la sezione dei segmenti ossei che vengono distanziati: “Le nostre ossa sono in grado di rigenerarsi. Ogni giorno l’osso ricresce di un millimetro però questa crescita deve essere guidata e a farlo sono i fissatori esterni, una sorta di gabbie metalliche attaccate agli arti, ideate dal medico Ilizarov alla fine degli anni ’70, che immobilizzano gli altri e al contempo provocano una trazione scheletrica da cui scaturisce l’allungamento. Un procedimento del tutto assimilabile avviene con il chiodo endomidollare”.
Il procedimento è difficile per il paziente perché non può immediatamente tornare a una vita normale. Inoltre, è estremamente importante per evitare infezioni e controindicazioni che le cure domiciliari siano seguite in maniera scrupolosa: “Ogni bambino reagisce a suo modo agli interventi chirurgici e al percorso post-operatorio. Una mia piccola paziente, per esempio, ha scelto il fissatore esterno come focus della sua tesina per l’esame di terza media e ha realizzato anche un prototipo artigianale, utilizzando nastro adesivo e le bacchette per suonare la batteria del padre. Segno evidente che ha accettato pienamente il percorso e i suoi ostacoli. Non c’è dubbio però che per un bambino non sia facile convivere con i fissatori che possono spaventare alla vista, come è difficile seguire alla lettera le terapie prima e la fisioterapia dopo”.