Tumore della prostata. Il ritardo della diagnosi, un fattore da non sottovalutare

“Uno dei fattori responsabili di una diagnosi tardiva è l’utilizzo del test del PSA che produce un certo numero di sovradiagnosi intercettando forme tumorali che non evolverebbero mai verso il cancro maligno, senza contare che molti tumori della prostata non producono PSA, quindi un valore basso non sempre è sinonimo di negatività”. Così il prof. Giacomo Cartenì, Direttore UOC di Oncologia Medica, Azienda Ospedaliera di Rilievo Nazionale “Antonio Cardarelli”, Napoli

medico-paziente-visitaNapoli, 11 settembre 2016

Prof. Cartenì, uno dei problemi del tumore della prostata è il ritardo della diagnosi, che in circa il 10-20% dei casi arriva nella fase già avanzata: quali sono i fattori che ostacolano un riconoscimento tempestivo della malattia?
Diversi sono i motivi che possono contribuire ad una diagnosi tardiva del tumore prostatico. Il principale è rappresentato dalla natura stessa della neoplasia, infatti questo carcinoma si sviluppa e cresce nella parte più periferica della ghiandola prostatica, il cosiddetto mantello e non dà segni della sua presenza se non dopo che è cresciuto ed ha infiltrato la capsula.

Un altro fattore responsabile di una diagnosi tardiva è l’utilizzo del test del PSA che produce un certo numero di sovradiagnosi intercettando forme tumorali che non evolverebbero mai verso il cancro maligno, senza contare che molti tumori della prostata non producono PSA, quindi un valore basso non sempre è sinonimo di negatività. Bisogna poi sottolineare una certa carenza di indagini diagnostiche per le quali si dovrebbe attivare la ricerca.

Quali sono generalmente l’evoluzione e la prognosi della patologia? Cosa s’intende per “forma metastatica resistente alla castrazione”?
Il tumore della prostata quando è lasciato a se stesso cresce e metastatizza portando a morte. La malattia diagnosticata precocemente e trattata in modo integrato ha tendenzialmente una prognosi buona nella maggior parte dei casi. Tuttavia abbiamo un 20% dei pazienti nei quali il tumore evolve rapidamente e a questi soggetti si riserva un approccio diverso.

La malattia può progredire nonostante venga trattato con la terapia ormonale di prima linea, in questa fase il tumore diventa metastatico e, dopo un periodo variabile, il paziente può diventare resistente alla castrazione, vale a dire alla deprivazione del testosterone, questa si definisce “forma metastatica resistente alla castrazione (mCRCP)”. La ragione per cui questo accade sta nel fatto che il tumore comincia ad autoprodurre il suo testosterone, che è un fattore di crescita, all’interno delle cellule maligne, trovando il nutrimento per crescere. I nuovi farmaci agiscono proprio dentro le cellule tumorali, bloccando il fattore di crescita.

Quali sono le strategie adottate in presenza di malattia aggressiva o non localizzata?
Quando i pazienti presentano un tumore prostatico aggressivo o in metastasi al momento della diagnosi, andrebbero per prima cosa gestiti da un’équipe multidisciplinare che coinvolga l’urologo, l’oncologo e il radioterapista. I trattamenti disponibili e utilizzati in questi casi comprendono la terapia ormonale, i nuovi farmaci anti-androgeni, come enzalutamide, e la chemioterapia.

Uno degli aspetti sempre più considerati in oncologia riguardo le nuove terapie è l’impatto sulla qualità della vita: da questo punto di vista come si caratterizza enzalutamide? Qual è il profilo di questo farmaco in termini di sicurezza, tollerabilità e maneggevolezza?
Gli studi Affirm, condotto su pazienti con tumore prostatico metastatico resistente alla castrazione già trattati con chemioterapia, e Prevail, condotto su pazienti con carcinoma prostatico metastatico naive alla chemioterapia, hanno dimostrato un miglioramento della sopravvivenza globale, un buon profilo di sicurezza e tollerabilità con effetti collaterali scarsi e di poca importanza rispetto ai pazienti trattati con placebo, permettendo un miglioramento della qualità di vita dei pazienti. Enzalutamide ha ridotto il rischio di fratture e compressioni del midollo spinale, nei pazienti con metastasi ossee. Questo farmaco, inoltre, non necessita dell’aggiunta di cortisone. L’insieme delle evidenze ne fanno un farmaco orale estremamente maneggevole e sicuro.

fonte: ufficio stampa

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